Commento

Mancherà don Roberto, l’eroe della strada, vicino agli ultimi

Sanno risvegliarci dal torpore dell’impotenza davanti alla miseria altrui. Quando li incontri ti fanno venir voglia di essere una persona migliore

16 settembre 2020
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Don Roberto Malgesini, 51 anni, ha dato la sua vita per gli ultimi. Schivo e riservato, era sempre in prima linea quando bisognava aiutare gli emarginati di Como. Portava la colazione ai senzatetto e ai migranti. Era come un padre per i diseredati. Uno di loro l’ha ucciso. Un tunisino con problemi psichici, senza fissa dimora, ospite di un dormitorio in città (vedi pag. 10). Don Roberto lo aiutava da tempo. Una discussione, il coltello e una preziosa vita spezzata. Questi uomini di Dio, che decidono di vivere la loro missione in strada, sono amati dalla gente come eroi, perché sanno dare una speranza a chi si è perso, sanno riannodare tessuti sociali strappati, diventano importanti ponti tra culture, arrivano dove lo Stato è latitante. Sono esempi virtuosi che catalizzano le forze della comunità, traducendole in progetti concreti. Forze positive travolgenti, sanno risvegliarci dal torpore dell’impotenza davanti alla miseria altrui. Quando li incontri ti fanno venir voglia di essere una persona migliore. Non cercano riflettori, potere, applausi. Lavorano nel silenzio per il bene di tutta la comunità. Sono preziose lucciole. Quando una tra loro si spegne ci ritroviamo tutti un poco più smarriti.

Non è il primo pastore dei poveri a fare questa fine. Venti anni fa, la stessa sorte è toccata a don Renzo, il parroco di Ponte Chiasso che aiutava i migranti, ucciso sul sagrato della sua chiesa da uno sbandato che aveva accolto. Anche il più famoso pastore dei diseredati elvetico, lo zurighese Ernst Sieber, strenuo difensore dei poveri, era stato aggredito più e più volte.  

Perché un senzatetto uccide la mano che lo aiuta? Sembra un atto contro natura. Proviamo a capire. Anche questi parroci talvolta devono dire di no ai loro assistiti. A volte non bastano un sorriso e una croce a placare la furia di una mente turbata dalla rabbia, stravolta dalla disperazione o annebbiata dall’alcol. Camminano assieme ai più afflitti, ma quanto sono preparati per farlo? Quanto sono sostenuti in questa pericolosa, quanto lodevole, missione? Spesso sono lasciati soli, in prima linea, a difendere gli ultimi, i migranti, a sfidare le politiche di destra e non solo. Incarnano dei simboli positivi, la gente li segue, li aiuta, perché li sente veri.  

Negli anni 80, il pastore Sieber era uno dei pochi che si avventurava nella scena aperta della droga a Platzspitz a Zurigo, portando assistenza ai tossici che giacevano qua e là semi incoscienti. Là dove nemmeno la polizia metteva piede, lui c’era. Forse è la fede a dare coraggio a questi uomini, che sanno mettere gli altri prima di sé stessi. Un grande atto di generosità. Oggi se ne vedono pochi.

L’eredità che lascia don Roberto è l’esempio, solido come una roccia. In una Chiesa stravolta da parecchi scandali anche sessuali, questi esempi virtuosi sono gemme preziose. 

«L’aggressione anche verbale fa parte del rischio. A volte devi saper dire di no e non sai quale reazione aspettarti», mi dice fra Martino Dotta che da anni gestisce la ‘mensa dei poveri’ a Lugano e una seconda struttura di accoglienza a Locarno. Forte della sua fede sa incassare e andare avanti. Quando lui cammina per la strada la gente lo ferma, lo abbraccia. Questo affetto lo sostiene nella sua missione.

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