Commento

‘Ragazzo, cosa ci fai ancora qui?’

Dalle cover band di ‘Voglio vedere le mani!’ ai gestori di ‘Sì, ma quanta gente porti?’, riflessioni sul mestiere del musicista

'Sing us a song, you're the piano man' (Billy Joel)
5 dicembre 2018
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Da dove vogliamo cominciare? Dal pianobarista soppiantato dalle tastiere che fanno tutto? Dai musicisti in carne e ossa sostituiti dal karaoke? Dalla cover band con il sosia di Ligabue? Partiamo dal primo. Quella del pianobarista è stata per molto tempo una professione illustre per la quale era necessario (lo dice la parola stessa) saper suonare il pianoforte per sperare che un giorno il gestore del locale dicesse “Man, what are you doing here?” (“Ragazzo, cosa ci fai ancora qui?”).

I sogni di gloria del pianobarista li racconta Billy Joel in ‘Piano Man’, manifesto di chi, prima di duettare con le star della musica nei talent, doveva farsi la gavetta “nei peggiori bar di Caracas” (nel caso di Billy, in quelli di Los Angeles, ma al Venezuela e alla California si sostituisca pure la Svizzera). Le tastiere che fanno tutto soppiantarono il pianobarista all’inizio degli anni 90, trasformandolo prima in un cantante che finge di suonare, poi in un cantante che fa partire una base e ci canta sopra. A volte divinamente bene.

Con la rivoluzione digitale, i veri pianobaristi sono diventati specie protetta come i panda. Il karaoke? “È un fenomeno passeggero, tra un paio d’anni rivorranno la musica dal vivo”, giurava qualcuno sempre in quegli anni. Poi sono arrivate le cover band, quelle di “Voglio vedere le mani!”. E poi i gestori dei locali che decidono la scaletta, quelli di “Sì, ma quanta gente porti?” (e che a tradimento ti scalano dal cachet la birra e il panino al salame).

Se, invece che di musica, stessimo parlando di arti grafiche, il pianobarista sarebbe sostituito da un fotografo, un illustratore, un fumettaro, dimezzati dalla rivoluzione digitale a partire dalle stampanti a getto d’inchiostro con le quali ci stampiamo le fotografie da noi senza una camera oscura in cantina, fino alle app che le nostre foto le trasformano in fumetto. A proposito di app, e tornando alla musica, si potrebbe parlare di Autotune, un programmino creato dal signor Andy Hildebrand, ingegnere elettronico, grazie al quale oggi può cantare anche Fedez. Come tutte le rivoluzioni, evidentemente, anche quella digitale ha la sua ‘dark side of the moon’ (qui intesa nell’accezione spaziale e non pinkfloydiana).

Eppure, anche se il messaggio ultimamente passa a fatica, si può provare – provare, perché non è un diritto – a vivere di musica anche senza transitare dai talent. Ne parliamo sulla 'Regione' di oggi. Perché non basta essere ‘alternativi’ o ‘non convenzionali’ per maledire il music business, giustificando il non avercela fatta con il magna-magna generale o le botte di fortuna. “Sogno una società in cui il dottore fa il dottore, il cantante fa il cantante e nessuno s’improvvisa”, sostiene Mario Biondi. E perché questo accada, perché il cantante faccia il cantante, c’è un vecchio metodo con il quale a tutti i livelli, dall’intrattenimento da matrimonio fino al Madison Square Garden, si può almeno provare a beffare il fato, la casualità e l’imbroglio. Sono necessari lo studio, l’applicazione e, ancor prima, un’infatuazione, folle. Ne può uscire una cosa applicabile ovunque, dall’agricoltore al fisico nucleare, chiamata ‘talento’, un’entità immateriale come l’anima (che nessuno ha mai capito che razza di forma abbia) per la quale i musicisti si individuano, si annusano, si sfidano (ne parla assai bene Stefano Bollani nel suo ‘Parliamo di musica’). Il talento, quella dote per la quale l’esibizione dal vivo resta oggi l’unica discriminante tra il professionista e l’improvvisato, tra l’illuminato e lo sfuocato, tra l’animale da palcoscenico e il fenomeno da baraccone.

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