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La ‘mostrologia’, l’effetto collaterale del pluriomicida

Il caso del Mostro di Firenze continua a essere riscritto, e c’è anche chi è stato processato per la sua convinzione di aver trovato il serial killer

‘Le varie fazioni, simili a tifoserie da stadio, si scontrano ogni giorno in una bolgia infernale della quale si perdono spesso il contorno e il senso’ (Depositphotos)

Il caso del Mostro di Firenze continua a essere riscritto, e c’è anche chi è stato processato per la sua convinzione di aver trovato il serial killer

4 febbraio 2025
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Sette (forse otto) duplici omicidi, diciassette anni di terrore e un’inchiesta costellata di punti interrogativi. Una verità giudiziaria sull’assassino seriale che insanguinò le campagne fiorentine tra il 1968 e il 1985 c’è stata. Ma che un verdetto ci sia stato, trattandosi di processi indiziari, non per tutti equivale alla certezza della colpevolezza. Da lì parte la volontà comune ad appassionati, giornalisti e studiosi, di trovare un colpevole diverso. Una ricerca non priva di insidie. Ne è una prova il caso di un giornalista italiano che per il suo metodo poco conforme alla deontologia, è finito nei guai con la giustizia.

Per un po’ il Mostro di Firenze fu Pietro Pacciani, il Vampa, il contadino di Mercatale che abusava delle figlie e che in passato aveva ucciso a sangue freddo il suo rivale in amore. Poi ci fu un ‘mostro a tre teste’, quando subentrarono anche i suoi ‘compagni di merende’: Mario Vanni, detto il Torsolo e Giancarlo Lotti, il Katanga. Gli unici, di fatto, a essere stati riconosciuti quali esecutori materiali di quattro degli otto delitti attribuiti al serial killer che uccideva le coppiette in camporella. Pacciani fu assolto e morì prima della sentenza definitiva. La Beretta calibro 22 che freddò Pasquale e Stefania, Giovanni e Carmela, Stefano e Susanna, Paolo e Antonella, Wilhelm e Uwe, Claudio e Pia, Nadine e Jean-Michel e forse anche Antonio e Barbara, non è mai stata ritrovata. È ancora in giro, chissà dove. Il Mostro magari è morto e sepolto, e con lui anche la verità, quella fattuale. Motivo per il quale, la macchina della giustizia, per molti, non può rassegnarsi all’idea che quei delitti possano concludersi in un’assoluzione punto e a capo. Ed è così che è avvenuto il big bang delle teorie che ha dato vita a un intero universo mostrologico. Non un’enciclopedia di creature fantastiche, ma vere e proprie spaccature rispetto alla verità giudiziaria che sottopongono la storia a continue riscritture e discussioni, tenute in vita giorno dopo giorno da appassionati e studiosi del caso: i cosiddetti mostrologi. Il prodotto diretto anche dell’agire della stampa che trasformò il caso del Mostro di Firenze in una saga multimediale sottoponendo la vicenda a frequenti deformazioni narrative dove il confine tra fatti e fantasia è spesso confuso.

Il Fatto QuotidianoUno scatto storico del processo nei confronti di Pietro Pacciani

‘Zodiac è il Mostro’

Da testimone a colpevole

Una di queste teorie, rappresenta un’ipotesi investigativa mai contemplata prima. A sostenerla è un giornalista freelance, Francesco Amicone, che si è incaricato di cercare, intervistare e denunciare un proprio presunto sospetto. Un uomo che, secondo lui, non solo è il Mostro di Firenze, ma contemporaneamente anche il Killer dello Zodiaco. Una pista che oltre ai paccianisti e ai merendiani esclude anche sardisti, complottisti, narducciani, e tutti gli altri pianeti che costellano la galassia mostrologica. Ma la verità, per chi è convinto di averla tra le mani, ha un prezzo. E lo ha avuto anche per il freelance, il cui lavoro, caratterizzato da circostanze decisamente poco compatibili con la deontologia giornalistica, gli si è inevitabilmente rivoltato contro. Lo scorso 5 dicembre è stato infatti condannato per diffamazione e gli è stata inflitta una pena pecuniaria. La fine di un procedimento penale che si protraeva dal 2022. L’accusatore è il suo stesso mostro. L’uomo che secondo lui incarna la violenza che si è perpetrata tra le campagne fiorentine e la California. Un personaggio che è andato a ripescare dal passato, dal 1994. Non uno qualunque, bensì proprio uno dei testimoni al processo Pacciani, la cui testimonianza fu ritenuta fondamentale per condannare il Vampa all’ergastolo. È un italoamericano. Ex veterano dell’esercito statunitense che dimorava all’interno del Cimitero americano dei Falciani, a circa 300 metri dalla piazzola degli Scopeti, dove vennero uccisi i turisti francesi, gli ultimi colpi fatali sparati dalla Beretta. Sulla base di quanto affermato dagli inquirenti negli anni Ottanta che ritenevano anomala la presenza di un serial killer in Italia, Amicone scopre un caso simile negli Stati Uniti: Zodiac. A fungere da fondamento della sua ‘inchiesta’, in estrema sintesi, è l’elemento acqua. Sì, perché se Zodiac ne era ossessionato (lo confermano anche i luoghi dei delitti che si è attribuito), il suo colpevole la indossa nel proprio cognome: Bevilacqua Joe. Nome e cognome che Zodiac stesso avrebbe indicato in uno dei suoi famosi messaggi cifrati.

È il 2017 quando il giornalista riesce a contattare l’ex militare con il pretesto di voler scrivere la sua biografia. I due iniziano una serie di incontri, durante i quali, secondo l’ideatore della teoria, Bevilacqua lo avrebbe ‘messo sulla buona strada’ per decifrare alcuni indovinelli del pluriomicida americano. Con l’arrivo dell’autunno, dopo quasi una decina di colloqui, una confessione sarebbe caduta proprio nelle mani di Amicone. L’uomo, ormai sull’ottantina inoltrata, si sarebbe attribuito la paternità di quegli efferati crimini, autoaccusandosi di essere entrambi i folli assassini. Confessione che l’italoamericano, fino al giorno in cui è morto nel 2022, ha tuttavia smentito anche di fronte alle autorità che lo hanno interrogato e che ha ribadito avanzando una denuncia contro il giornalista a seguito di numerosi articoli che accostavano il suo nome a quello dei due assassini. E qui entra ufficialmente in discussione la professionalità del giornalista: la confessione non è stata registrata. Nonostante non avesse in mano alcuna prova concreta della colpevolezza di Bevilacqua, Amicone ha perseverato nel pubblicare articoli sul suo blog ‘OstelloVolante’ e nel rilasciare interviste che lo riguardano, con dati biografici che hanno fatto il giro di diverse testate giornalistiche e che continuano a risuonare nei video inerenti al caso su YouTube.

A ‘rinforzare’ la sua tesi arriva, nel 2020, una nuova scoperta che contiene l’elemento fondamentale. Viene individuato l’articolo dal quale il Mostro ritagliò le lettere che incollò alla busta spedita al magistrato Silvia Della Monica nel 1985. Ad aver trovato quel numero del settimanale ‘Gente’ in edicola sono stati altri appassionati mostrologi: Paolo Cochi, sostenitore di un’altra pista, quella del Rosso del Mugello; Martino Rossi e Valeria Vecchione. Al di là della presenza dell’acqua nel titolo dell’articolo: ‘Care dolci acque non vi riconosco più’, quest’ultima ricercatrice è riuscita a scoprire cosa si cela dietro ciascuna delle lettere incollate su quella busta. Pare che ogni pezzettino di carta contenga un rimando all’elemento acqua. Un elemento dunque comune a tutte e tre le figure.

WikiquoteLa missiva alla magistrata

A ogni modo, ad aprile del 2021, l’indagine per omicidio su Bevilacqua viene archiviata dalla Procura di Firenze. Il rapporto redatto sul lavoro di Amicone scansa ogni dubbio: “Tale inchiesta giornalistica è caratterizzata da suggestioni, supposizioni, asserite intuizioni, e non contiene alcun elemento fattuale suscettibile ad assurgere a dignità d’indizio e gli accertamenti espletati non hanno consentito di acquisire alcun dato obiettivo”. Ma lui non si arrende, trova ogni pretesto per andare avanti nella sua ricerca, a modo suo, infrangendo il codice deontologico. Per esempio, pubblicando fotografie della famiglia Bevilacqua senza il loro consenso, facendone nome e cognome senza prova alcuna a sostegno della propria tesi.

Una teoria che fa acqua da tutte le parti

Per la criminologa fiorentina Ursula Franco, infatti, è una teoria che fa acqua da tutte le parti. «È una colossale sciocchezza». Le ragioni, a detta dell’esperta, sono molteplici. Il cooling off period – periodo di pausa tra gli omicidi –, le armi, il profilo sociale, il territorio in cui uccide. «Il cooling off period di uno e dell’altro sono il segnale di una psicopatologia diversa. A differenza di Zodiac, che ha usato più pistole, il Mostro ha ucciso 8 coppie con la stessa arma, una Beretta calibro 22. Se fossero stati la stessa persona Zodiac avrebbe rivendicato gli omicidi con il proprio nome. Era un disadattato sociale e solitario, narcisista e paranoico, guidato principalmente dal bisogno di attenzione, potere e, soprattutto, credibilità, mentre il mostro di Firenze agiva per lussuria, era un lust murderer. A differenza di Zodiac, lui si procurava dei ‘trofei’ e proprio grazie a questi riviveva emozionalmente gli omicidi prolungando così il proprio ‘cooling off period’». Per Franco un altro fattore permette di scartare l’ipotesi di una convergenza. «Una tecnica per determinare in quale area viva l’offender è lo studio dei luoghi in cui commette crimini, il geographic profiling. Questo modello comportamentale parte dal presupposto che un soggetto selezioni le sue vittime vicino a casa e che quindi viva nell’area all’interno del suo raggio d’azione. Le zone in cui l’offender colpisce rientrano in una ‘comfort zone’, un’area nella quale si sente al sicuro, area che, nella maggior parte dei casi, non è nella cosiddetta zona cuscinetto a ridosso di casa sua, in quanto in quell’area teme di venir facilmente riconosciuto. I luoghi dove il serial killer si sente al sicuro sono quelli che frequenta e dove ha l’opportunità di incontrare le sue vittime. Va da sé che difficilmente un serial killer poteva essere di casa a San Casciano in Val di Pesa e a Vallejo».

DepositphotosL’elemento che, secondo alcuni, accomunerebbe i due serial killer

‘Uno è l’evoluzione dell’altro’

Se per Procura ed esperti questa teoria non sta né in cielo né in terra, ha trovato sostegno da parte di altri appassionati. Uno di questi è Daniele Trinchieri, studioso del caso Zodiac. «La prima volta che mi sono imbattuto nell’eccezionale lavoro di Francesco – ci racconta – è stato nel maggio del 2018. Nella sua inchiesta ho trovato dei dati che tornavano alla perfezione in base alle mie conoscenze. Un assassino di coppiette rimasto a piede libero e sparito dagli Stati Uniti nel gennaio 1974 è ipotesi assai più probabile rispetto a tutte quelle formulate nel corso degli anni in relazione al Mostro di Firenze. Esclusa la differenza delle escissioni (che Zodiac non effettua sulle vittime, ndr), a mio avviso se si conoscono entrambi i casi le similitudini sono impressionanti: coppiette appartate uccise nei fine settimana con pistola e coltello, in luoghi vicino all’acqua; l’assenza di violenza sessuale ai danni delle vittime. Sappiamo con certezza che Zodiac era un comunicatore accanito, in quanto pare traesse piacere anche dall’aperta sfida agli inquirenti. Anche il Mostro – spiega – comunicava. Stessa pistola, stesso munizionamento a rivendicare i delitti e infine la terribile missiva del 1985». Un altro punto comune: la cronologia. «Zodiac si congeda dagli Stati Uniti nel ’74 con un brano relativo a un annegamento, mentre il Mostro ‘compare’ alle Fontanelle di Rabatta il 14 settembre dello stesso anno.

Sostanzialmente, il Mostro potrebbe essere un’evoluzione del killer dello zodiaco». Per Trinchieri, un dato è certo. «È davvero difficile interpretare le scelte ‘acquatiche’ del Mostro trovate dietro ai caratteri usati per la missiva inviata a Silvia Della Monica. Il dato avrebbe perfettamente senso nel caso ci fosse realmente Zodiac dietro ai delitti avvenuti a Firenze, in quanto è pacifico che il serial killer americano avesse un’ossessione sempiterna per l’acqua».

Il processo a Novoli

‘Arginare questo fiume di menzogne’

Ma il sostegno di Trinchieri e altri mostrologi, evidentemente, non ha evitato che Amicone finisse alla sbarra e venisse condannato per diffamazione. La sentenza di condanna è stata pronunciata, come detto, lo scorso dicembre, ma una conclusione era già attesa un anno fa, durante la terza udienza del processo a suo carico. Procedimento a cui abbiamo assistito.

MCLIl gigantesco palazzo di giustizia

È il 22 febbraio, ci troviamo sul viale Alessandro Guidoni, nel quartiere di Novoli a Firenze, dove sorge la futuristica costruzione del Palazzo di giustizia. È difficile non vederla. Finalmente la troviamo, l’aula 22, nel sottosuolo di quel foro labirintico. Amicone però non c’è. Per accusa e difesa non è una sorpresa. Entrambi gli avvocati, rispettivamente Elena Benucci e Jacopo Pepi, dicono che non si è mai presentato, neanche nelle due precedenti udienze. Dopo una ventina di minuti, oltre l’orario prefissato, ci fanno entrare. Il Pubblico ministero formula subito una richiesta di pena di due anni. Per Benucci, legale prima di Bevilacqua e ora della sua famiglia, «l’imputato non ha esercitato il suo ruolo di giornalista, il suo diritto di informare l’opinione pubblica su una vicenda che è scaturita da terzi, al contrario, la vicenda è partita da lui stesso. La genesi l’ha creata lui. L’intento di Amicone era di poter in qualche modo spingere questo giudice a celebrare nuovamente il processo del Mostro di Firenze». Secondo l’accusa il 38enne «non si è limitato a dare una notizia, ma ha creato una serie di suggestioni, elaborato enigmi, arricchito l’inchiesta di immagini e informazioni sul mio assistito. Ha volontariamente enfatizzato ciò che Bevilacqua gli raccontava, mettendogli in bocca parole che non ha detto. Solo a fine maggio del 2018, quando a casa della famiglia Bevilacqua si presenta la Polizia giudiziaria, Bevilacqua e i suoi parenti capiscono cosa stava succedendo. Vanno su internet e scoprono un fiume di notizie, addirittura si presentano giornalisti, presentatori televisivi, ‘Chi l’ha visto?’ e ‘Quarto grado’. Sono stati obbligati a blindarsi in casa». Una condotta che, secondo famigliari e accusa, «ha prima leso l’onore e la reputazione di Bevilacqua e ora la sua memoria. Quello che chiedo è che venga pronunciata una sentenza che faccia giustizia e che argini questo fiume di menzogne». Opposto il parere della difesa. «Amicone si è comportato giornalisticamente in maniera corretta, non mise parole in bocca ma riportò correttamente quanto gli venne detto». Un altro punto fermo, per Pepi, «è che l’ottantenne in aula non l’abbiamo mai sentito e non ci sarà mai modo di farlo. Amicone non ha pubblicato la sua inchiesta e si è nascosto, al contrario ha fatto una denuncia e ha anche avvisato lo stesso Bevilacqua attraverso una lettera. Tutto rientra nel diritto di cronaca, perciò ritengo che in questo processo non si sia raggiunta la penale responsabilità». La difesa ha dunque richiesto l’assoluzione. Non scattano manette né riduzioni di pena, ma l’ordine di una perizia psichiatrica nei confronti dell’imputato. Una decisione che non stupisce l’accusa e che lascia in silenzio la difesa. La perizia, di recente, ha concluso che Amicone fosse perfettamente in grado di intendere e volere al momento della commissione dei fatti di imputazione. Intanto, la caccia ufficiale al Mostro è stata riaperta. Ne ha dato notizia ‘la Repubblica’ a fine luglio, riferendo della scoperta di un Dna sconosciuto su uno dei proiettili trovati sulla piazzola degli Scopeti, dove vennero uccisi i francesi. La mostrologia dovrà dunque, forse, confrontarsi con l’ufficialità delle indagini e con l’attendibilità delle informazioni fornite dagli inquirenti.

Fascino del true crime: ‘Mors tua, vita mea’

La cronaca nera diviene fulcro di fake news online

In assenza di elementi probatori concreti, alla sbarra dunque ci è finito il giornalista. Conseguenze del tutto prevedibili, secondo il Consiglio svizzero della stampa (Css), data l’incongruenza del suo agire con diritti e doveri della professione che pratica. Un atteggiamento, il suo, che riflette un giornalismo approssimativo, spesso sensazionalistico, motivato dalla determinazione mostrologica a volersi erigere a paladini e scopritori della verità, a qualsiasi costo. Il vero fine a giustificare i mezzi è tuttavia difficile da scorgere. «Una pubblicazione come quella di Amicone – spiega Francesca Luvini già membra del Css – si scontra con quasi tutti i doveri del giornalista elencati nel nostro codice: iniziando dalla ricerca della verità che sta alla base dell’informazione, fino al rispetto della sfera privata delle persone». Per Luvini, «mancano tutti gli aspetti fondamentali per essere ritenuto un contributo giornalistico: non è una ricerca seria fatta su più fonti per restituire ai lettori dei fatti di interesse pubblico. Qui l’unica cosa che c’è è l’interesse pubblico della vicenda riferita al Mostro di Firenze, ma non c’è da parte sua un confronto diretto con dei documenti o con delle testimonianze. Per quel che ho potuto leggere – prosegue – cita ‘sue intuizioni’ o addirittura ‘suoi sogni’. Sono delle illazioni, delle congetture che lo portano a sostenere che i due serial killer siano la stessa persona. L’unica cosa che riesce a provare è che entrambi erano dei pluriomicidi… che scoperta». Un atteggiamento «che trovo irrispettoso in tutti i sensi, sia verso la sua unica testimonianza, sia verso di noi che verso il pubblico che non è altro che preso in giro». L’inchiesta di Amicone è stata portata avanti per sette anni, dal 2017 al 2024. Una perseveranza che lascerebbe perplessi nel caso in cui si trattasse di una gigantesca fake news. «Potrebbe esserlo. Non possiamo dire con certezza che la notizia sia falsa, ma certamente non abbiamo alcun elemento che ne provi la veridicità».

Difendersi dalle fake news rappresenta oggi una vera e propria sfida. Ma come si fa a riconoscerle? «Verificandole. Sembra banale, ma è così. Bisogna guardare chi pubblica cosa e su quale canale e vedere se la notizia è riportata da altre redazioni, prediligendo le testate che hanno una storia e una credibilità». Un organo come quello del Consiglio svizzero della stampa, avrebbe permesso di «contribuire alla riflessione su questioni di etica professionale. La speranza è di garantire un’autoregolazione del settore dei media». Autoregolazione, che nel caso delle testate che hanno pubblicato gli articoli di Amicone, non è tuttavia avvenuta.

DepositphotosSecondo Amicone l’uomo avrebbe confessato, ma ha preferito non registrare

Amicone: ‘Registrare di nascosto sarebbe stato scorretto’

Da parte del giornalista freelance comunque non c’è traccia di pentimento o di passi indietro. Al contrario, anche dopo la condanna, Amicone continua ancora a sostenere pubblicamente la propria tesi. L’unica risposta che siamo riusciti a estrapolargli riassume la sua posizione: «L’etica professionale non obbliga il giornalista a registrare di nascosto qualcuno. Non è un poliziotto. Agisce in base a ciò che reputa etico. Nell’ambito della ‘telefonata dell’ammissione’, Bevilacqua si stava confidando. Registrare di nascosto sarebbe stato scorretto. Gli ho però suggerito un avvocato per aiutarlo a costituirsi. Non mi pento della mia scelta». Ma cosa rende la violenza oggetto culturale, da guardare, seguire, commentare, ricreare? E cosa spinge ‘persone comuni’ a diventare mostrologi, dedicando porzioni significative del proprio tempo libero alla ricerca di un serial killer? Un interrogativo che abbiamo posto allo psichiatra forense Carlo Calanchini. «Un approfondimento richiederebbe moltissimo tempo. Ci confrontiamo con la morte, quella che toccherà anche a noi ‘in corpore vili’ o meglio, nella fiction. I serial killer ci avvicinano alla tangibilità della fine, ma – si spera – non ce la faranno sperimentare. Psicologicamente, la nostra aggressività e il nostro latente sadismo, trovano sfogo per interposte persone, assassini e vittime. ‘Mors tua, vita mea’».

I mostrologi: ‘Innamorati della propria tesi’

Sono passati quasi quarant’anni dall’ultimo pluriomicidio, eppure questi efferati crimini sono tenuti in vita giornalmente dalla mostrologia. Una scienza inesatta, alimentata da persone che nulla hanno a che fare con la vicenda. Su ‘Facebook’, per esempio, esiste il gruppo ‘Il Mostro di Firenze’ a cui sono iscritti quasi 10mila membri e dal quale ogni giorno arrivano notifiche. Sono i cosiddetti mostrologi, che si sfidano a suon di discredito e acredine. Perché ognuno ha il proprio mostro, come Amicone ha il suo. Lo conferma Francesco Cappelletti, fondatore del sito ‘Insufficienza di prove’, calderone di moltissime informazioni pertinenti all’argomento. «Negli ultimi 4-5 anni la situazione è evidentemente tracimata e le varie fazioni, simili alle tifoserie da stadio, si scontrano ogni giorno in una bolgia infernale della quale si perdono spesso il contorno e il senso». Ci si innamora della propria tesi? «È accaduto spessissimo. Anche a chi si è occupato delle indagini. È un vero e proprio innamoramento, con tutto ciò che ne consegue: deragliamenti, mancanza di obiettività, imparzialità, misura… Una sciagura. Ho visto persone capaci, competenti buttare via la propria credibilità nel giro di un paio di battute. Capita e non c’è niente che si possa fare per farli desistere». Un rischio concreto e che continua a verificarsi e che può portare, come nel caso di Amicone, a conseguenze penali. E in un mare così ricco di teorie, il tesoro della verità pare sempre più sommerso. E chi vi si avventura, senza gli strumenti giusti, rischia di farsi abbagliare dal canto sirenico di semplici appassionati del true crime. D’altronde, come conclude Calanchini, «di personaggi deliranti che hanno convinto masse la storia è piena». Forse, quell’‘Occhio Ragazzi’ – impresso sui manifesti che, dagli anni Settanta agli anni Ottanta, riempivano i muri fiorentini per mettere all’erta i giovani – oggi servirebbe come messaggio di sensibilizzazione in un mondo ormai fitto di false notizie e di un giornalismo approssimativo che distoglie l’attenzione dalle vittime e che non dà loro pace neanche nella morte.

WikiquoteIl manifesto degli anni Settanta e Ottanta che avvertiva del pericolo