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Quando l'amore diventa una droga: la dipendenza affettiva

A volte il bisogno di una relazione porta a organizzare la propria esistenza in funzione di essa. Le storie di chi lo vive e il parere dell'esperta

In sintesi:
  • Si tratta di una modalità disfunzionale e disadattiva di relazione col partner
  • La persona che soffre di dipendenza affettiva tende ad annullarsi per il partner
Auto-ingabbiarsi per amore
(Depositphotos)
6 dicembre 2023
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Le sedie in cerchio, una caramella su ognuna. Piccole dolcezze prima che la stanza che a Giubiasco ospita il gruppo di auto-aiuto ascolti le storie amare di uomini e donne alle prese con un nemico insidioso: la dipendenza affettiva. Una patologia relazionale non ancora considerata ufficialmente un disturbo psichico, ma che condiziona la vita di chi ne soffre.

A dare una definizione è la dottoressa Silvia Pittera, psicoterapeuta esperta del tema a cui dedica anche un blog. «La dipendenza affettiva è una modalità disfunzionale e disadattiva di relazione col partner che comporta un ventaglio di sintomi, anche molto eterogenei, ritenuti dai tecnici della salute mentale “clinicamente significativi”, cioè con un impatto intenso e pervasivo nella vita di chi li sperimenta. Nella dipendenza affettiva l’altro è considerato centrale e la propria esistenza viene organizzata in funzione di lui o di lei, fino a una sostanziale diminuzione di attività sociali, professionali o di svago. In altre parole la persona che soffre di dipendenza affettiva tende ad annullarsi per il partner. La sua assenza è vissuta come estremamente dolorosa, l’abbandono non pensabile e dunque evitato con ogni mezzo, come eccessiva devozione, accondiscendenza, sottomissione. Chi sperimenta una dipendenza affettiva finisce per svilirsi nel tentativo, spesso vano, di garantirsi vicinanza fisica e prossimità affettiva e impiega moltissime energie nel controllare la relazione per impedire che finisca. La perdita del partner, poi, provoca una vera e propria sindrome da astinenza simile, per certi versi, a quella causata dall’interrompere l’assunzione di stupefacenti, caratterizzata da intensa sofferenza e ricerca compulsiva dell’altro, che avviene a prescindere da quanto infelice, disfunzionale o a volte francamente tossica possa essere la relazione».

Ciò che hanno provato sulla propria pelle le persone del gruppo: «Quando hai paura di perdere qualcuno ti aggrappi – racconta Claudia* –. In due anni di relazione non ho mai litigato col mio partner, per me era impossibile: se credevo che stesse per succedere facevo di tutto per calmare le acque, perché avevo paura che lui andasse via. Lo trattenevo pensando che se fosse rimasto sarei stata bene e finivo, ovviamente, per non star bene lo stesso».

«Dentro di me qualcosa mi urlava di scappare via – racconta Paola* –. Una volta ho allontanato una persona molto negativa per me, ma sono finita per rincorrerla perché piuttosto che essere sola accetti anche situazioni tossiche. Ero ridotta a star sempre sul divano a guardare serie Tv, e stare al fianco del mio partner nel suo progetto professionale».

Un’infanzia con troppo amore, o troppo poco

Ci sono eventi che innescano la dipendenza affettiva o è una propensione del singolo? «Quando mi chiedono se si nasce dipendenti affettivi o se la dipendenza affettiva possa essere il frutto marcio dell’incontro con un partner patologico mi piace usare la metafora del seme e dell’annaffiatoio – spiega la psicoterapeuta –. La dipendenza affettiva è come un seme che ci portiamo dentro. Viene interrato durante l’infanzia dalle figure affettive per noi più importanti (quasi sempre i genitori), e rimane lì a riposo fino a quando non incontriamo “l’uomo o la donna con l’annaffiatoio”. A quel punto inizia a germogliare, ma non come un alberello gentile, piuttosto come una pianta tappezzante che ingombra e asfissia ogni cosa. La causa della dipendenza affettiva è da ricercare all’interno della famiglia d’origine, bisogna tornare indietro a quando il paziente era bambino. A causarla è sempre un problema di regolazione affettiva: l’amore dato è troppo o troppo poco. Talvolta i bambini che da adulti sperimentano una dipendenza affettiva hanno avuto genitori molto impegnati nelle trame familiari per vederli nei loro bisogni più intimi (problemi di salute, economici, conflitti genitoriali, nascita di figli più problematici). Svilupperanno così un’idea dell’amore che include la possibilità di non essere visti. Altre volte, invece, sono stati figli “troppo amati”, vittime di genitorialità fagocitanti. Il genitore che non permette al figlio di differenziarsi e individuarsi lo paralizza in una rete mortifera, lo considera un riempitivo del suo vuoto, lo mantiene eternamente piccolo e gli impedisce, di fatto, di potersi dare davvero, una volta diventato adulto, a una relazione altra».

‘Dopo un lutto, temevo un altro abbandono’

È il caso di Claudia: «Dopo la separazione dei miei genitori, sono cresciuta con mio padre: urlava spesso, non mi lasciava parlare. Convinta così che nessuno mi avrebbe mai ascoltato, non ci provavo neanche perché temevo solo di rovinare le cose. Quindi era come se non volessi ritrovarmi nella stessa situazione col mio compagno, cercavo di non suscitare quella reazione di cui avevo paura, anche se lui non mi ha mai fatto nulla di male. Quando si cresce fin da piccoli con un’insicurezza si finisce per dipendere dal giudizio altrui: ci si sente sbagliati, per cui quando arriva una persona che sembra perfetta, per te esiste solo quello perché non l’hai mai avuto. Annullarsi è anche cercare qualcosa che non hai e non puoi avere, e che per questo ci attira, anche se a volte non è ciò che ci fa bene». «Se non hai autostima, finisci per accontentarti delle briciole pur di non stare da solo: alla fine dai tutto, e ti annulli nella relazione» è il commento di Paolo*.

Per Giulia* ha pesato un evento tragico: «Da quando ho perso mia madre sentivo sempre il bisogno di stare con il mio partner di allora, gli davo il 95%. Quando eravamo insieme facevo tutto quello che voleva: uscivamo solo con i suoi amici e ho perso quasi tutti i miei, quando non c’era lui mi sentivo sola e persa. Ho abbandonato tutti i miei hobby, passavamo quasi tutto il tempo insieme, e io volevo che fosse così. Non volevo neanche più bene a me stessa: non mi piacevo, ma mi bastava che mi volesse bene lui. Da allora è sempre stato difficile per me affrontare la fine di una relazione perché sentivo come se venissi abbandonata ancora una volta».

Come riconoscere la dipendenza affettiva? «Essa può produrre tanti sintomi diversi quanto sono diverse le persone che ne soffrono – spiega l’esperta –. Ansia generalizzata, angoscia profonda, discontrollo degli impulsi, pensieri ossessivi sulla relazione, comportamenti compulsivi (in genere di riavvicinamento al partner), depressione, attacchi di panico, insonnia, deliri di gelosia e controllo, somatizzazioni di vario genere e intensità, anche gravi. I sintomi sono tentativi (certamente disfunzionali, ma spesso gli unici possibili in quella condizione) che la nostra psiche ha per risolvere un problema più grande, antico, spaventoso. I sintomi fisici hanno la stessa funzione. Si pensi alla tosse, meccanismo riflesso a difesa delle vie aeree, utile per impedire che agenti esterni giungano ai livelli più profondi dell’albero respiratorio. I nostri sintomi, tutti, tentano di proteggerci. Per questo fatichiamo così tanto a risolverli. Hanno un vantaggio, oltre che un costo in termini di sofferenza. Consiglio sempre di fermarci un attimo a riflettere: perché continuiamo a stare in una relazione che ci rende così profondamente infelici? Che vantaggio abbiamo nel non rinunciare a tutti i sintomi che ci ostiniamo a tenere? Le risposte potrebbero essere ottimi spunti di partenza per un lavoro psicologico che ci porterà molto più in profondità».

‘Essere usati sembra il male minore’

Un aspetto problematico della dipendenza affettiva è, spesso, l’instaurarsi di una dinamica di potere nella relazione in capo all’altra persona, con conseguente rischio di manipolazione «Mi sono schiacciata in un angolo per lui per sei anni – racconta Giulia –. Non vivevo più: non potevo nemmeno andare in giro vestita come volevo perché “attiravo uomini”, ma per non litigare lo accettavo. Mi accorgevo però che aveva potere su di me». Consapevolezza per Monica* chiara, ma difficile da gestire: «A volte ce ne accorgiamo, non possiamo dire di non sapere che l’altro potrà utilizzare il nostro atteggiamento contro di noi, ma di fronte alla paura di restare soli sembra il male minore. C’è un conflitto dentro di noi che per un po’ a volte si placa, poi iniziano i campanelli d’allarme, si comincia a chiedersi se l’altra persona ci stia usando. È un cruccio, sappiamo che lui o lei ha potere su di noi ma non riusciamo a reagire». «Sembra facile dire di reagire quando non si è dentro la situazione – afferma Claudia –. Vuol dire prendere tutta la tua storia, annullarla e ricominciare. Si aspetta che sia l’altro a lasciarci, non lo facciamo noi perché sappiamo di perdere qualcosa di cui abbiamo bisogno in quel momento, e finiamo per starci male perché non lo abbiamo deciso noi: è difficile rompere, capire che è sbagliato e andar via».

‘Anche chi ti vuole bene non sa come aiutarti’

Ci si chiede come si comportino le persone intorno, se esse provino a dare un aiuto. Per Monica*, ciò non è accaduto: «Ho lasciato mio marito dopo 40 anni di relazione perché ho scoperto delle cose molto negative sul suo passato. Quando mi accorgevo di qualcosa di strano, chi mi stava intorno metteva in dubbio il mio sentire, rinforzando ulteriormente il senso di colpa per aver solo pensato male di una persona che, così brava e intelligente, aveva scelto proprio me». «Si rischia di perdere amicizie – aggiunge Paolo –. Io mi sono scontrato più volte anche con membri della mia famiglia, e per fortuna non li ho persi: mi chiedevo come facessero a dare un giudizio sulla mia partner senza conoscerla, solo in base a qualcosa che dicevo io ogni tanto. Ho deciso che avrei fatto di testa mia… e invece avrei dovuto ascoltarli». Amicizie compromesse anche per Giulia: «Una delle mie migliori amiche si era accorta che rinunciavo spesso a ciò che mi piaceva, mi diceva che ero spenta, che “non ero più io”, e alla fine si è allontanata: perché davvero non ero più io, ero “la ragazza di”».

«Chi ti conosce bene capisce che qualcosa non va, ma non è sempre facile aiutarti – spiega Claudia –. Le persone a me vicine, persino mia madre, non riuscivano a comprendere cosa avessi: chi non vive questa situazione non riesce a capirla, né ad aiutarti anche se ti vuole bene, perché non sa come farlo. E ti senti ancora peggio, perché pensi che se non ti capisce la persona per te più importante al mondo, allora nessuno sarà in grado di capirti, ma non è così. Nel gruppo di auto-aiuto mi sono sentita vicina a chi aveva vissuto la mia stessa esperienza, c’è un sentimento comune anche se non ci si conosce bene. Soprattutto, non c’è giudizio».

‘Bisogna imparare ad attraversare il vuoto’

C’è ancora, evidentemente, molto da fare. «Certamente sarebbe necessario che la dipendenza affettiva trovasse posto all’interno del Dsm (il manuale dei disturbi psichici ndr) – commenta Silvia Pittera –. Riconoscere un’entità diagnostica significa darle dignità scientifica. Il fatto che non l’abbia ancora non dovrebbe impedire comunque a un buon clinico di conoscerla approfonditamente e trattarla con la cura che merita. Nelle sue manifestazioni è comunque un quadro che giunge spesso alla attenzione degli psicoterapeuti. Negli ultimi anni sono certamente aumentati gli studi e la divulgazione sia scientifica che social sulla dipendenza affettiva. Questo ha generato una maggiore consapevolezza. Bisognerebbe certamente fare di più. Educare all’affettività le nuove generazioni rimane sempre, a mio avviso, una potentissima arma per diffondere quella che io chiamo “cultura dell’amore sano” e per prevenire preoccupanti distorsioni dell’idea di amore e di relazione sentimentale».

Arriviamo alla domanda cruciale: come uscirne? «Lo dirò senza giri di parole: dalla dipendenza affettiva si esce faticosamente grazie a un buon lavoro di psicoterapia fatto insieme a un terapeuta che conosce la materia. Per esperienza clinica posso affermare che il momento più duro per chi ne soffre è quello in cui bisogna imparare a “stare” nel vuoto lasciato dalla persona amata che se n’è andata. Ai miei pazienti chiedo spesso: “Come possiamo pensare che il nostro partner, o quello che vorremmo lo fosse di nuovo, voglia stare con noi se neanche noi vogliamo starci? Se riempiamo ogni vuoto con la sua presenza e quando non c’è cerchiamo distrazioni o ci rimpinziamo di cibo, alcol, sostanze, shopping, lavoro, o di qualsiasi cosa ci impedisca di passare del tempo con noi stessi?”. Dalla dipendenza affettiva si esce attraversando il vuoto, la noia, il dolore, l’assenza, e provando a diventare interessanti prima di tutto ai nostri occhi».

«Ho capito che non si può venire al mondo solo per farsi amare da qualcuno – conclude Paola – e vivere di luce riflessa».

*Nomi noti alla redazione

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