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Il cielo come soffitto: Ginevra, in viaggio fra gli invisibili

In città proliferano i senzatetto, ‘buchi’ nella rete sociale per i quali ogni giorno è guadagnato ma anche perso. Fra le risposte, il Refettorio

Lungo gli argini del Rodano (Ti-Press/Samuel Golay)

In città proliferano i senzatetto, ‘buchi’ nella rete sociale per i quali ogni giorno è guadagnato ma anche perso. Fra le risposte, il Refettorio

Ginevra – Scesi i pochi gradini che portano sull’argine il passo si fa insicuro, timoroso. L’incertezza è amplificata da un’unica luce tremolante dentro una tenda accarezzata dalla brezza che spira dal fiume. Il sentiero in terra battuta che conduce all’accampamento è una teoria irregolare di ciuffi d’erba e lievi sbalzi di livello.

Ti-Press/Samuel GolayViktor, romeno, cacciato e tornato tre volte

Visto dal basso, il Pont de Sous-Terre oscura il soprastante quartiere di Saint-Jean. A monte, un imponente complesso residenziale propone appartamenti a 15mila franchi al mese. Dalle terrazze la vista è imprendibile: si abbraccia il corso del Rodano, che nelle belle giornate è un nastro sinuoso color cobalto. In lontananza svetta la torre della radiotelevisione romanda. È megalomane, fuori scala, illuminata eppure stranamente anonima. Sembra sorvegliare Ginevra, coacervo di lingue e culture tacitamente stratificato sui suoi ceti sociali. Qui siamo a diretto confronto con l’ultimo, quello più coriaceo, ineluttabile, cangiante nella sua drammaticità, eppure invisibile a chi decida di farsi catturare l’occhio dalle vetrine della Jonction, splendenti sulla riva sinistra.

Addossato al muro in cemento armato troviamo un malconcio letto a tre piazze. Gli occupanti – un ragazzo e due ragazze – sono avvoltolati in un patchwork di vecchie coperte e sacchi a pelo. Con le torce dei telefonini ci illuminiamo i volti. Siamo giornalisti, diciamo, vogliamo solo parlare; "di disperazione" è un sottinteso che fa quasi più baccano se non pronunciato. «C’est lui», dice il giovane gettando un’occhiata alla sua sinistra. Lascia intendere una gerarchia comunitaria che serve forse a rafforzare l’identità di gruppo; per riconoscersi, ancora, in una famiglia.

Ti-Press/Samuel GolayLungo gli argini del Rodano

Nel breve dialogo che ne è seguito abbiamo saputo che quella è la famiglia di Viktor, rumeno sulla quarantina dal volto ruvido e scarno. «È la terza volta che veniamo qui – ci ha detto nel suo francese stentato –. Ma è sempre uguale: nessuna possibilità di lavoro, niente appartamento e solo quei pochi franchi che riusciamo a raccogliere per strada. Prima cerchiamo di non morire di fame noi, poi inviamo in Romania quello che ci resta». Qui la gente è strana, ha aggiunto Viktor, distogliendo lo sguardo, «ed è razzista». Poi ha taciuto fino a chiederci: «Ce l’hai qualche soldo per mangiare?». Abbiamo barattato l’imbarazzo con un plico di buoni pasto ricevuti poche ore prima come merce di scambio in una mensa sociale. «Amici, famiglia», ci ha salutato Viktor, limitandosi a un "cliché" quasi pubblicitario. Poi la "zip" si è richiusa e abbiamo sentito soltanto lo scorrere del fiume.

Ginevra la diplomatica, città di finanza, cultura e apertura, sede delle Nazioni Unite, di un’altra quarantina di organizzazioni internazionali e di quasi 400 Ong, è costellata di senzatetto. Si stima sia oggi un esercito di quasi 800 persone. Viktor le rappresenta idealmente tutte nella mancanza di prospettive, nella disperata ostinazione a tornarci dopo esserne già stato cacciato, nella rinuncia all’igiene personale, nel conformarsi alla condizione di parìa e nel ridursi alla pratica dell’elemosina: il primo territorio oltre la frontiera della dignità.

Luoghi di memoria e vite senza futuro

Fra i luoghi della miseria c’è la piccola spianata davanti all’antica Brasserie Landolt, all’angolo tra rue De Candolle e rue du Conseil-Générale, non lontano dal Parc des Bastions, il principale parco storico del centro città. È curioso e contraddittorio, il dialogo fra il passato pieno di miti e di memoria di questi ambienti e il presente senza futuro delle vite sofferenti che li abitano. La Landolt fu il rifugio di Lenin durante il periodo ginevrino precedente la rivolta bolscevica, mentre più tardi accolse i profughi portoghesi fuggiti dal regime di Salazar, che vi prepararono la rivoluzione dei garofani. Altri accampamenti popolano le vicinanze del Pont Hans-Wilsdorf, più comunemente detto Ponte Rolex in omaggio al prestigioso marchio creato dall’orologiaio nato in Germania e morto a Ginevra.

Quotidiane tragedie silenziose si sviluppano anche lungo quegli stessi argini dell’Arve, fin sotto il Pont des Acacias, o all’interno del cimitero, dove altri miserabili giacciono intabarrati fra le lapidi. Taluni riparano in fatiscenti stabili ingrassando i proprietari che chiedono 30 franchi a notte. Poi ci sono i lupi solitari, che tracciano i loro itinerari dentro il perimetro del centro alla ricerca di una qualsiasi fiammella d’accoglienza.

Ti-Press/Samuel GolayA piedi nudi nel gelo

Fra loro c’è Nelson, anziano dagli occhi a mandorla. Una logora mascherina a mezzo viso gli nasconde un pizzetto candido. Ciondolante lungo rue de Lyon, trascina un carrellino che sobbalza sul selciato. La serata è gelida, ma Nelson è a piedi nudi dentro "croc" inghiottite sul tallone dall’orlo sfilacciato di pantaloni troppo larghi. Alla prevedibile proposta di procurargli un paio di calze risponde con una spiegazione che contiene un mondo: «Ne ho già, e anche di scarpe, ma non riesco più a infilarmele e non so da chi farmi aiutare».

Il resto è un tentativo di barcamenarsi dovendo fare i conti con l’età che avanza e un precario stato di salute conseguente al malsano stile di vita. Ci sono apposta i servizi del Comune, consideriamo con logica elementare; si faccia aiutare da loro. «Lo so – risponde – ma non ho il numero per chiamarli e comunque ho paura di tutti quei formulari». Si scusa e prosegue. Lo aspetta un alloggio assistenziale, unico appiglio rimasto per non precipitare nella più completa indigenza.

L’altra certezza di Nelson è un "voucher" fisso a settimana per cenare gratis al Refettorio, il ristorante sociale e di sperimentazione gastronomica aperto all’inizio del 2022 e destinato a varie categorie di disagiati ginevrini. L’apparato che lo regge condensa gli sforzi di 35 "partner comunitari" (le associazioni no-profit che per lo più all’inizio di ogni mese prenotano i posti per i loro pupilli) e quelli prettamente finanziari di diversi sponsor privati. La direzione è stata assunta da un trentenne particolarmente sveglio, Romain Bortolotti, mentre in cucina comanda Walter el Nagar, chef italo-egiziano capace di abbinare visioni a praticità, come da statuto della Fondazione Mater, da lui creata nel 2020. Sue sono le metamorfosi alimentari ottenute tramite innovativi processi di fermentazione di scarti e bucce, sua l’idea di produrre il burro e i condimenti in proprio, di evitare nel limite del possibile sale e pepe, di ricavare bevande dagli alimenti.

"L’alimentazione è politica", "Aiuto ai poveri e no allo spreco alimentare": sono alcuni degli slogan del ristorante, un luogo singolare in cui dialogano mondi aprioristicamente distanti come eccellenza alimentare, disagio sociale, impegno nel riciclo e capacità di dialogo. Mondi, concetti che la ventina di impiegati fissi e stuoli di volontari sono chiamati a impersonificare nelle due distinte fasi dell’attività quotidiana: il pranzo a menù fisso (36 franchi) per una clientela fatta di impiegati e professionisti, che finanzia la cena, identica, offerta per 5 giorni a settimana ai disagiati previa presentazione dei "voucher".

Ti-Press/Samuel GolayRomain Bortolotti, direttore del Refettorio

Qui i buoni pasto vengono branditi come biglietti d’accesso a un esperimento di straordinaria valenza sociale, ma ancora in cerca di consolidamento economico. Questo, nonostante le cifre 2022 parlino di oltre 9’000 pasti offerti, del recupero di 2,5 tonnellate di generi alimentari, di 22 chef esterni invitati e di 4’000 ore di volontariato, portate da quasi 650 persone. Durante la nostra visita, ad affettar carote e servire ai tavoli troviamo le rappresentanti di diverse divisioni della Richemont, la Maison del lusso che controlla fra le altre il colosso Cartier. Le sofisticate Elisabeth e Axelle dimenticano per 3 ore le rispettive posizioni di capo-progetto e responsabile delle risorse umane raccogliendo i capelli e indossando il grembiule. «Portiamo mani, ascolto e un sorriso», dice la prima. Suona come una frase motivazionale inculcata durante il "briefing" fra i marmi dell’azienda. Ma se aiuta a servire un "sans papier" che la guarda come un’aliena, il risultato si può dire raggiunto.

Ti-Press/Samuel GolayUn rifugio che è anche azione politica

In un mercoledì qualunque di febbraio, fra i tavoli del Refettorio si ha l’impressione di partecipare a un’Ultima cena officiata dalla Dea Benevolenza. Ali, tunisino, in Svizzera da 25 anni, parla del razzismo che infesta la città, «specialmente con gli arabi musulmani». In un’altra vita ha giocato e allenato a Versoix, ora si offre invano come "riparatutto" e rimugina sul presente conversando con Boukris, libico, reduce da 117 giorni di prigione a Champ-Dollon. Per un accumulo di multe non pagate lo hanno rinchiuso «con spacciatori e assassini», dice, quasi schifato dalla sua stessa condizione. «Posso far tutto ma non ho il diritto al lavoro». Sorretto dai farmaci, Boukris rivendica il diritto all’integrazione ma si è ritrovato a dormire in un parco: «Dieci notti, prima della galera. Una volta libero mi hanno concesso un alloggio sociale da cui so che dovrò andarmene a fine mese». Il solo domani disponibile è nella frustrazione di una Segreteria di Stato della migrazione cui ha ripetutamente scritto «ma che si è sempre rifiutata di rispondermi».

Senza risposte, dentro i buchi della rete sociale ginevrina, c’è anche la famiglia accampata sotto la tettoia adiacente alla Maison de Quartier di Saint-Jean. Tre letti ancora disfatti e uno ripiegato, su cui è appoggiato un paio di scarpe da bambino, sono il simulacro di un moderno appartamento "en plein air", con il campo da basket a fungere da ampio salotto. È già sera inoltrata, ma ancora lo calpestano due ragazzi. Chiediamo degli occupanti: chi sono, quando arrivano, se fra loro ci sono bambini. Rispondono solo all’ultima domanda: «Sì, avranno 4 o 5 anni». Uno indica le scarpette, si gira, mira a canestro. La palla si alza e traccia sul selciato l’ombra di un arco.

Ti-Press/Samuel GolayNei pressi della Maison de Quartier di Saint-Jean