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‘Ragazzi delusi, non trovano un motivo per impegnarsi’

Il modello della comunità L’Imprevisto a Pesaro, dove lo psicologo Cattarina, accoglie anche ticinesi tossicodipendenti. Le storie di chi ce l’ha fatta

Il modello della comunità L’Imprevisto a Pesaro, dove lo psicologo Cattarina, accoglie anche ticinesi tossicodipendenti. Le storie di chi ce l’ha fatta

15 dicembre 2022
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«È una guerra, una vera emergenza educativa». Da oltre quarant’anni lo psicologo e sociologo Silvio Cattarina vive ed è impegnato con ragazzi difficili, sfortunati, vulnerabili, tossicodipendenti che approdano a L’Imprevisto, un gruppo di comunità e centri terapeutici a Pesaro, dove trovano rifugio anche ragazzi ticinesi, come Lorenzo, che lì ha iniziato la sua rinascita. Un cammino di 2 anni, fatto di attese e richieste esigenti. A chi ha sofferto tanto, lo psicologo chiede tanto, il doppio. «Altrimenti è come se non credessimo in loro». Ritenendoli incapaci molti genitori abbassano l’asticella. Chi viene trattato da lazzarone, lo può diventare per davvero. All’inizio è difficile per tutti fidarsi di nuovo. Quando qualcuno arriva in comunità Cattarina lo avvicina e gli dice: «Aiutiamoci, vediamo se c’è una grande cosa che attende proprio te. Mi guardano in modo strano. Ma c’è una rivoluzione nella loro testa, perché qualcuno finalmente illumina tutta l’attesa che sentono dentro e indica una via». Lo abbiamo incontrato a Lugano dove ha presentato il suo ultimo libro ‘Voglio il miracolo!’.

Perché questo nome, l’Imprevisto, per la Cooperativa Sociale che ha fondato, dove approdano centinaia di ragazzi tossicodipendenti?

Perché evoca speranza. Ci siamo ispirati a una poesia di Eugenio Montale (‘Prima del viaggio’) che si conclude con questi versi: ‘E ora che ne sarà del mio viaggio? Troppo accuratamente l’ho studiato, senza saperne nulla. Un imprevisto è la sola speranza’. Ogni uomo cerca una grande opportunità.

Ragazzi che si feriscono, si sedano, si sballano, ragazzi annoiati da tutto: che succede?

Tanti giovani stanno male ed è doloroso vederli così. Tagliarsi, drogarsi, farsi del male è sintomo di rabbia. In Italia ci sono bande giovanili che si danno appuntamento sui social per picchiarsi, e i componenti nemmeno si conoscono. È un male desiderato che dà voce all’oscurità interiore, porta alla luce un forte risentimento. C’è molta delusione. Molti ragazzi non trovano un motivo per vivere, per impegnarsi. Ciascuno viene al mondo con una grande attesa nel cuore. Se nessuno te la spiega, te la illumina, allora succede che ti arrabbi.

Perché annebbiarsi con la droga invece che darsi da fare?

La dipendenza non è un problema di psiche, ma piuttosto un’urgenza educativa. Incontro ragazzi intelligenti, sensibili, con una grande attesa disattesa che diventa rabbia. Anche noi adulti, non conosciamo più il grande valore della vita. Non sappiamo più perché stare al mondo! È questa la grande questione di partenza! Se non conosciamo più questi valori tutto diventa vuoto, noia. Tutto riparte, se invece riaccendiamo questi valori.

Come aiutare dunque questi ragazzi?

Difficoltà, fatica, dolore esistono ma non devono trasformarsi in un’auto-punizione, come fanno tanti, con la droga, con l’autolesionismo. A volte mi chiedono: ‘Quanto ci vuoi bene, Silvio?’. Rispondo: ‘Vi voglio bene, ma la cosa più importante è saper gridare tutto quello che abbiamo nel cuore, farlo arrivare lontano, perché poi la vita ti ingaggia!’. Chi ha un cuore grande ha mille amici. Molti mi dicono: ‘Silvio non sai quanto sono stato solo’. Quando arrivano in comunità vogliono fare tutto da soli, non sanno chiedere aiuto. La fatica di stare in comunità non sono le regole, ma il fare insieme... se glielo chiedi si incazzano. Questa è la vera prigione.

Per chi vuole fare, ci sono molte attività di volontariato ma tanti giovani sembrano disinteressati…

È vero. C’è sempre più bene che male. Purtroppo è come se queste realtà non sono in grado di affascinarli.

Che dire ai genitori?

Che dicano ai loro figli con convinzione e fermezza d’impegnarsi, di sforzarsi, di aprire gli occhi. Non è tutto merda, come dicono loro. Amarli non è solo dare loro affetto, ma è saperli lanciare verso una responsabilità, altrimenti crescono senza spina dorsale.

Avrebbe mai pensato, da giovane, di abbracciare questo percorso?

Ho sempre pensato, che fosse possibile un miracolo, come il titolo del mio ultimo libro. Desideravo, a quel tempo, ‘fare cose grandi’. Grandi persone, grandi maestri, mi hanno educato a cose belle.

È stato dunque un imprevisto quello di occuparsi di dipendenze?

È stato un imprevisto. Mia madre mi diceva sempre: ‘Silvio, non devi pensare di essere bravo tu, devi invece avere un cuore grande, così avrai ciò che desideri’. Queste parole mi hanno accompagnato lungo il mio cammino. Molti ragazzi sono attanagliati dalla performance (soprattutto voi svizzeri, un po’ perfezionisti...) più di essere capaci noi, dobbiamo saper chiedere alla vita tutti i doni di cui abbiamo bisogno. Proprio come diceva mia madre.

La storia di Lorenzo

I miei anni in comunità e il mio rientro a Lugano

«Sono un irrequieto, un imbronciato, lo sono fin da piccolo. Voglio capire a fondo ciò che mi circonda». Così si descrive Lorenzo, 22 anni, cresciuto a Lugano, scivolato nel tunnel della droga. Lo incontriamo a casa dei suoi genitori. Aveva 14 anni quando ha iniziato con le canne. «C’ero dentro fino al collo, ma non mi sembrava un problema». Il suo sguardo si fa serio, mentre dice: «Lo facevo per lenire le crepe, le ferite che sentivo nel cuore. Almeno così pensavo allora». Questa spinta a voler capire, a dover fare per essere felice, è una ricerca che dovrebbe avere un approdo e trasformarsi in un progetto di vita. Così non è stato, almeno allora.

Dopo tanti litigi, un giorno i genitori, gli chiedono di scegliere: curarsi o uscire di casa. Tre mesi alla clinica Santa Croce di Locarno non bastano. In Ticino non vede alternative, affiancato dai suoi cari, Lorenzo approda alla comunità l’Imprevisto a Pesaro, dove resta per due anni. Accompagnato da educatori, psicologi inizia un duro percorso per divenire consapevole del male patito a causa degli stupefacenti e ricostruire una matura autonomia. «Sono uscito dalla comunità lo scorso marzo. È stata un’esperienza forte, due anni mi sono sembrati dieci, perché il quotidiano ti coinvolge davvero tanto. Lo sguardo degli operatori all’inizio è quasi soffocante, la giornata è scandita da molte attività. La mattina ci si alza presto, io ero abituato a uscire dal letto a mezzogiorno». Tante regole che non sono buttate lì a caso: «Un letto rifatto è bello, in una camera pulita ci stai volentieri. Mi dicevano che dovevo tenere a me stesso, ma io sentivo dentro un nodo, una lotta».

Si autodefinisce un tossicodipendente anomalo. «Sono cresciuto in un ambiente familiare caloroso e con principi solidi». Ma poi c’è stata la droga, la distanza da tutto, da tutti. Con molto coraggio - ci confida - mia madre a un certo punto ha capito che non le appartenevo, era pronta a lasciarmi andare, se il mio cammino era quello di continuare a farmi del male. È proprio così: la droga avvelena i rapporti familiari, crea distanza, porta a decisioni sofferte.

Quando i genitori di Lorenzo hanno fatto un passo indietro, qualcosa dentro di lui è scattato. «Ho deciso di andare a Pesaro a curarmi, mettere una distanza mi ha aiutato per dare una nuova lettura alla mia vita». Il percorso è stato impegnativo ma ha portato i suoi frutti.

Tornato a Lugano, si è confrontato col suo passato, con le vecchie malsane abitudini, ha incontrato vecchi amici. «Temevo la tentazione, basta una passeggiata in centro a Lugano per vedere qualcuno che si fa una canna. Ma non mi ha messo in crisi. So di aver percorso una via alternativa. So che per me stesso voglio cose belle e oggi mi apro alla mia vita».

‘Avevamo bisogno di essere sostenuti’

«Per mio figlio Lorenzo, non c’erano più prospettive, non potevamo più aiutarlo. Metterlo con le spalle al muro è una prova difficile, ma lui ha finalmente accettato di farsi aiutare», dice suo padre. La sorella di Lorenzo identifica la struttura a Pesaro, la consulente di Ingrado prende i contatti coi colleghi. Malgrado la pandemia si trova un posto. «Potevamo sentire Lorenzo una volta a settimana per 10 minuti, poi comunicavamo regolarmente col responsabile della comunità. C’era anche un’assemblea dei genitori una volta al mese. Fare il cammino con altri genitori ci ha aiutato molto, avevamo bisogno di sostegno e ci siamo sentiti meno soli», conclude la mamma.

La storia di Stella

‘Ora so che c’è qualcosa di grande per me’

Stella è una bella ragazza, la incontro a Lugano, i suoi occhi brillano quando racconta del suo periodo in comunità, ci è entrata nel 2019 ed è uscita a luglio. Sorride: «Ci sono stata un po’... sai per i miei problemi di tossicodipendenza. Ero stanca di ciò che facevo, ma allo stesso tempo molto presa. All’inizio, non credevo che all’Imprevisto avrei risolto i miei problemi...». La ventenne pensava di starci due settimane, tanto per far contenti i suoi genitori, per dimostrare loro che ci aveva provato. «Allontanarsi dalle droghe, dalle amicizie aiuta, ma quello che mi ha stupita sono i rapporti che ho trovato in comunità. Quello che mi sta facendo cambiare punto di vista su me stessa, sulla vita, sono proprio i rapporti con altre persone. Quando sei sempre solo, ti dai sempre le stesse riposte».

‘Il vuoto e ho scelto la strada più facile’

Lei sentiva un grande vuoto, un dolore che zittiva con la droga. «Avevo dentro un grande desiderio che non si realizzava, non sapevo cosa fare della mia vita, ho scelto la strada più facile – la droga – e forse quella più popolare tra i giovani. In realtà sei molto solo. In comunità non ti senti mai solo». Non è stato facile: «Piano piano ho iniziato sentirmi accettata, poi anche amata, per quello che sono. Da quel momento è iniziato il cambiamento, mi sono detta, se sono qui ci sarà un motivo».

Stella è cresciuta in una famiglia unita, i genitori non le hanno mai fatto mancare nulla. Eppure, lei non si sentiva amata. «Loro mi hanno voluta, mi amano perché sono loro figlia. Un dubbio mi rodeva: qualcun altro mi amerà così?». Amore è affetto, ma soprattutto, come dice Cattarina, lanciare l’altro verso una responsabilità, altrimenti un figlio non viene su con una spina dorsale.

Questa esperienza in comunità le ha lasciato una nuova certezza: «Ora so che c’è qualcosa per me. Ogni giorno mi chiedo chissà che cosa mi verrà incontro, sicuramente qualcosa di grande. Vivo felice anche le giornate tristi, perché so che ogni giorno mi darà comunque qualcosa. Quello che desidero per me è stupirmi ogni giorno».