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Squallor, e poi non rimase nessuno

Alfredo Cerruti era l'ultimo in vita. Storia di quattro goliardi che di giorno scrivevano la storia della canzone italiana e di notte la facevano a pezzi.

'Scimelahammalasemelehemel… Ugh. Scimelahammalasel…'

Alfredo Cerruti era l'ultimo in vita. Storia di quattro goliardi che di giorno scrivevano la storia della canzone italiana e di notte la facevano a pezzi.

20 ottobre 2020
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(Attenzione: questo articolo può contenere linguaggio scurrile. Così ci abbiamo messo tutti gli asterischi che avevamo)

“Berta, ti amavo” è forse il momento in cui gli Squallor sono stati più vicini a Jacques Prévert. ‘Berta’, 1977, è una squallida (e cosa sennò), sguaiata serenata messa in scena da un amante rifiutato sotto casa dell’amata, tale Rosanna Ambrosetti. Egli, nell’attesa di un segno da parte di ella, ha trascorso ore e ore in auto consumando “già due cassette di Little Tony”; brama per ricongiungersi con l’Ambrosetti dopo quindici lunghi anni di digiuno carnale, ma la donna non scenderà in strada (e nemmeno lo farà la Rosamunda, l’amica di lei, invitata a unirsi in un eventuale ménage à trois) perché la Rosanna, con quel “milanese” dallo smaccato accento meridionale di chi s’è integrato al nord senza mai perdere l’inflessione del sud, non ha niente più da spartire, se non una sequela d’insulti che fanno il pari con la poca eleganza delle di lui profferte amorose. In questo quadro di crescente deriva umano-sociale, la Rosanna Ambrosetti, spalleggiata dalla madre, non cederà nemmeno se il pretendente ha già scaldato la macchina, accuratamente tappezzata di moquette (“Me l’ha messa l’ingegner Zamberletti”).

“Da qualche parte della vita di ognuno c’è un angolo di Squallor” (Vinicio Capossela)

Parafrasando la versione americana di ‘Dieci Piccoli Indiani’ di Agatha Christie, ora che se ne sono andati via uno alla volta, degli Squallor ‘non rimase nessuno’. Ufficialmente. È con ‘Berta’, una sequela di volgarità a loro modo artistiche – anche grazie a una delle tante impeccabili basi musicali create appositamente per accendere, tramite contrasto, la scintilla della comicità – che celebriamo la morte di Alfredo Cerruti, l’unico Squallor ancora in vita fino a domenica scorsa. E con la morte di Cerruti, 78enne, celebriamo indirettamente un gruppo che definire musicale è eccessivo o riduttivo a seconda di come la si vuol vedere. Eccessivo per chi alle oscenità degli Squallor preferisce le liriche di Arrigo Boito; riduttivo perché insieme al napoletano Alfredo Cerruti, i compagni di merende Daniele Pace (milanese), Totò Savio (altro napoletano) e Giancarlo Bigazzi (toscano), quartetto base degli Squallor, di giorno hanno scritto la storia della canzone italiana ‘seria’ e di notte l’hanno fatta a pezzi, irrisa come peggio (meglio) non potevano. “Tutto è nato con questi quattro che a Milano facevano gli scherzi telefonici – Cerruti, Pace, Savio e inizialmente Elio Gariboldi, editore dell’etichetta Sugar in Germania – e se la ridevano tutto il giorno”, racconta Bigazzi in ‘The Squallor’, documentario presentato al Napoli Film Festival 2012 e documento pressoché definitivo. “Se incontri gente come loro – diceva in quell’occasione Bigazzi – la vita te la passi tutta ridendo”.

Chi li ha visti

Dietro le copertine dei dischi degli Squallor, esplicite e allusive, inizialmente occultate dai negozianti di dischi come i filmetti nel 'privé' delle videoteche, si nascondono – mai ufficialmente palesatisi, cosa che ne ha accresciuto il mito – in primis il da poco defunto Cerruti, direttore artistico della Cbs dapprima, poi della Cgd e più avanti della Ricordi, uno che ha deciso il gusto della canzone italiana, scopritore di Gigliola Cinquetti e dei Pooh, autore per la tv (‘Indietro tutta’ su tutto, con dentro l’immortale cazzeggio “Volante 1 a volante 2”), ancor prima che compagno di Mina a metà anni ’70. 

‘Nell’Italia bigotta dell’epoca la libertà di espressione mancava come l’aria. In ambito musicale si temevano persino arie ingenue come “Far l’amore con te” di Gianni Nazzaro e in politica andava anche peggio’ (Alfredo Cerruti al Fatto, 2014)

Con Cerruti, nel ruolo di frontman associato, c'è Daniele Pace, cui si devono le parole di ‘Sarà perché ti amo’, uno che da solo o nello storico trio Pace-Panceri-Pilat – variamente alternati – ha scritto ‘Nessuno mi può giudicare’, ‘La pioggia’, ‘A far l’amore comincia tu’ e ‘Tanti auguri’ per Raffaella Carrà, ‘E la luna bussò’ e ‘In alto mare’ per Loredana Berté, e un piccolo capolavoro intitolato ‘A me mi piace vivere alla grande’, insieme al defunto Franco Fanigliulo. Pace, uno che ha vinto un Grammy per ‘Love me tonight’ cantata da Tom Jones e la cui carriera solista si farà notare per un album di culto ‘alla Squallor’ (‘Vitamina C’, 1979), in cui spicca una ‘Vaffanculo’ quattordici anni prima che a celebrare l’epiteto sia Marco Masini, in modo un tantino autolesionista. La parte più musicale degli Squallor è invece cosa per Totò Savio, cantante, arrangiatore, compositore, paroliere e produttore (‘Cuore matto’, ‘Erba di casa mia’, ‘Maledetta primavera’, ‘Una rosa blu’) e Giancarlo Bigazzi, una specie di Re Mida che ha toccato Tozzi, Raf, Masini e tanti altri, oltre che autore dei sempreverdi ‘Luglio’, ‘Lisa dagli occhi blu’, ‘Montagne verdi’, ‘Gli uomini non cambiano’.

Il doppiatore non serve più

“Era il 38 luglio e faceva molto caldo ed era scoppiata l’afa, quando all’elettrotecnico le venne una grossa idea: si sdraiò per terra e si fece camminare su un camion con rimorchio. Ma non si fece male perché aveva in tasca un portafortuna. Un portafortuna che gli aveva regalato sua zia Waller. Un piede di porco a pila” (da ’38 luglio’, 1973)

Tutto era iniziato con le citazioni dall’Iliade in ‘Troia’, album d’esordio del 1973 con in copertina un cavallo a dondolo avvolto dalle fiamme, album quasi monastico nel suo linguaggio ma non nel titolo, prima provocazione (anche grafica) che diventerà una costante dei dischi a venire (‘Palle’, ‘Vacca’, ‘Pompa’, ‘Cappelle’, ‘Tromba’, ‘Mutando’, ‘Scoraggiando’, ‘Arrapaho’, ‘Uccelli d’Italia’, ‘Tocca l’albicocca’, ‘Manzo’, ‘Cielo duro’, ‘Cambiamento’). Tutto era iniziato, in verità, ancor prima, in un misto di folgorazione e pura casualità, con la visione de ‘Il mio amico diavolo’, film del 1967 in cui l’attore Peter Cook recita sopra un brano musicale; Cerruti vorrebbe riprodurre la cosa in studio e convoca il doppiatore Giuseppe Rinaldi, voce di Paul Newman e Marlon Brando; per fargli capire cosa intende, si mette davanti al microfono e si produce in un soliloquio puramente indicativo; dall’altra parte del vetro, i colleghi piegati in due dalle risate gli dicono che il doppiatore non serve più. È così che la storia dell'elettrotecnico "che seppe inventare la pila" declamato da Cerruti finisce in ’38 luglio’, 45 giri costruito su di un autoplagio di ‘Lady Barbara’ (scritta da Savio e Bigazzi) e pubblicato nell’ottobre del 1971. “Vendemmo centomila copie senza pubblicità e senza passaggi radiofonici in Rai", dirà il 'solista'.

‘Pronto... Casa Baratti-Borotti-Baratti-Buffa?’ (Pierpaolo)

‘Arrapaho’ a parte, album del 1984 anche in versione cinematografica, definito dal Morandini “il peggior film della storia del cinema italiano” (“Dargli torto è impossibile”, commenterà Cerruti), il capolavoro degli Squallor è considerato ‘Pompa’, storico anche solo per l’aver partorito – nel brano ‘Famiglia cristiana’ – il piccolo Pierpaolo, giovanissimo rampollo dell’alta borghesia che con voce querula (o ‘pitchata’, alzata di tono con escamotage tecnico, un timbro da Paperino che conferisce ulteriore sgradevolezza a un personaggio già sgradevole di suo) estorce telefonicamente soldi al padre, a volte tramite il maggiordomo, in quello che è uno dei marchi di fabbrica degli Squallor. Negli anni, Pierpaolo telefonerà da Phoenix (‘Scoraggiando’, 1982) da ‘Düsseldorf Bau’ (‘Arrapaho, 1983), Beverly Hills (‘Cielo duro’, 1988), prima di ‘Pierpaolo sabato sera’, dall’ultimo e definitivo ‘Cambiamento’, 1994. Ma il miglior nonsense in ‘Pompa’ sta forse nel corteo di case che sfilano nella ‘Marcia dell’equo canone’.

Con tutto il suo carico di luminose sconcerie, da poco ristampato in vinile, per Rolling Stone Italia l'album sta tra i cento dischi italiani più belli. Il tutto in una formazione pressoché immutabile, ridottasi nel 1985 con la morte di Pace e con pochi guests (in queste ore, il bassista dei Pooh Red Canzian ricorda le session di rutti – i suoi – negli studi di via Quintiliano a Milano).

'Parodiammo il nostro universo e ci salvammo l'anima'

Quanto alla sua storia d’amore con Mina, Cerruti non si spiegava perché la cantante avesse lasciato tutto. Ma era convinto che avesse fatto bene. “Anzi, benissimo”. È il concetto più generale che emerge dalle poche interviste rilasciate dal fondatore degli Squallor in carriera. Una di queste risale al 1979, rilasciata al settimanale Panorama: “Parliamo come parlano ora anche i ragazzini, con gli stessi termini che la gente usa in fabbrica, in ufficio e, certo, anche in caserma. In più facciamo ridere, e molto”. E poi, l’autodefinizione: “Noi stiamo alla canzone tradizionale come il cinema realista di oggi sta a quello sdolcinato di ieri. Solo che nella musica siamo ancora indietro”.

“Dopo una riunione con i Pooh, riunirmi con gli amici e dissacrare rappresentava un’esigenza” (Alfredo Cerruti al Fatto, 2014)

L’intervista successiva è di 25 anni dopo: oltre a spiegare come mai i dischi degli Squallor non siano mai finiti sotto la scure della censura, nemmeno sparando a zero sul Vaticano (“Il nostro avvocato era il direttore della Siae”), Cerruti sintetizza al Fatto Quotidiano perché si diventa Squallor: “Io e i miei compagni d’avventura eravamo organici al mondo della musica. Avevamo a che fare con i cantanti e i cantanti, non so se lei lo sa, sono degli scassac**** senza eguali. Egotici, arroganti, autoreferenziali (…) Gente micidiale. Usciti dai nostri incontri quotidiani con le stelle della musica, eravamo neri come la notte. Allora pensammo di donarci un po’ di luce. Parodiammo il nostro universo e in quel modo ci salvammo l’anima”. In quell’intervista si raccontano anche gli istinti suicidi di Gino Paoli vissuti da suo autista, i “rompicoglioni strutturali” e i matti come Loredana Berté, litigiosa ma “artista vera e con una qualità che ai miei occhi è sempre stata importante: non le è mai fregato nulla del denaro. A differenza di quella belva di Marcella Bella, una ragazza che accumulava soldi senza spendere una lira”.

Cerruti parlerà ancora nel 2018 ad Antonello Piroso per La Verità, raccontando degli scherzi telefonici durati fino all’età di trent’anni (“Facevamo vivere il fanciullino che è in ognuno di noi”) e della situazione molto pythoniana vissuta ai funerali di Daniele Pace: “Ci ritrovammo davanti a due bare, e per un po’ piangemmo su quella sbagliata, di tal Gargiulo. Alla fine delle esequie dissi a Bigazzi e Savio che eravamo rimasti in tre. Come i Police”.