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Chi ha venduto le forze idriche ticinesi?

L’articolo di Fiorenzo Dadò del 2 febbraio sulla questione delle forze idroelettriche ticinesi merita alcune riflessioni. Il suo intervento inizia lamentandosi del “buco nero” storiografico nella questione dello “sfruttamento delle acque” in Ticino. Forse, come capo di uno dei maggiori partiti presenti in Gran Consiglio potrebbe assumere iniziative affinché possano moltiplicarsi le borse di ricerca per giovani storici. In questo caso, avrà il totale sostegno dell’Mps.

Dadò prosegue criticando il recente articolo di Bruno Storni. Questi, fra le altre cose, metteva giustamente in evidenza il fatto che le società di produzione di energia idroelettrica sfruttano un bene comune come le forze idriche, producendo a prezzi di costo (estremamente bassi) e rivendendo l’energia sul mercato liberalizzato a prezzi elevati. Grandi profitti, quindi, dei quali solo una minima parte rimane alla collettività ticinese. La politica del massimo sfruttamento per assicurare il massimo profitto ha inoltre conseguenze ambientali, ovviamente secondarie per i produttori di energia elettrica. Per Dadò, il problema è che Ofima e Ofible sono di proprietà, per l’80%, di società di produzione appartenenti ad alcune città svizzero-tedesche, controllate da maggioranze rosso-verdi. La conclusione è semplice: vista la comunanza politica, Storni dovrebbe intervenire sulle città-padrone che praticano una politica “colonialista” chiedendo loro di restituire il “bottino” o, perlomeno, avere una politica ambientale più rispettosa.

È innegabile che tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo, il grande capitale bancario-industriale elvetico ha fomentato una politica “colonialista” di accaparramento delle acque ticinesi da destinare alla produzione di energia elettrica. Qualsiasi politica colonialista è comandata dai detentori di grandi capitali. Costoro hanno bisogno, soprattutto per lo sfruttamento di un bene pubblico come l’acqua, di un “terminale” indigeno, ossia di un ceto politico e affaristico (per il Ticino è forse un po’ eccessivo parlare di “borghesia”…) pronto ad assecondare e a garantire gli interessi privati delle società “colonialiste”. Detto altrimenti, pronti a svendere le acque ticinesi al grande capitale nazionale. La Motor-Columbus, per esempio, non avrebbe potuto mettere le mani su una fetta consistente delle più preziose forze idriche ticinesi, in particolare della Levantina, senza contare su una fitta rete di relazioni con politici locali. Per dare un’idea di cosa stiamo parlando, ecco un elenco non esaustivo di personalità ticinesi che nel tempo hanno curato, in un modo o nell’altro, gli interessi della Motor-Columbus in Ticino: avv. Giovanni Dazzoni (conservatore), avv. Giuseppe Motta (conservatore), avv. Arnaldo Bolla (liberale), avv. Stefano Gabuzzi (liberale), avv. Filippo Rusconi (liberale), ing. Cesare Augusto Giudici (conservatore), avv. Enrico Celio (conservatore), Emilio Juri (liberale), avv. Aleardo Pini (liberale), Francesco Ferrari (conservatore), avv. Nello Celio (liberale).
Vi sarebbe molto da discutere sul piano storico (e politico). Ma una cosa appare chiara e limpida: la situazione attuale in materia di controllo e gestione delle forze idriche ticinesi è il risultato di scelte storiche iniziate cent’anni fa, con gravi responsabilità politiche dei partiti che allora controllavano il Cantone, liberali e conservatori. La loro iniziale opposizione alla nascita dell’Azienda Elettrica Ticinesi (Aet) e i limiti della capacità d’azione sono anche il frutto dello spazio occupato e del sostegno di cui godevano le società capitaliste nazionali da parte di una parte consistente delle forze politiche ed economiche ticinesi. Se, forse, il Ticino recupererà solo verso il 2050 il controllo totale sulle sue forze idriche, ciò è indubbiamente da mettere in conto al ruolo storico avuto da una parte della sua classe politica, determinata nel mettersi al servizio del “colonialismo” nazionale.

Un’ultima osservazione generale. Le critiche mosse alle società di produzione svizzero-tedesche valgono anche per le società di produzione (e di distribuzione) ticinesi. Le Ail Sa e la Ses Sa, per esempio, applicano la stessa logica rapace sulle risorse idriche cantonali. L’acqua turbinata in Ticino a prezzi di costo (5-4 ct./kWh) è collocata sul mercato liberalizzato nell’obiettivo di ricavarne il massimo profitto, accumulando un consistente tesoro finanziario. Pompano acqua ma pompano anche nelle tasche dell’utenza locale, imponendo prezzi normalmente elevati, esorbitanti quando scaricano sulle cittadine e sui cittadini i costi delle loro speculazioni andate male sulle borse europee dell’energia. E neppure ravvisiamo politiche particolarmente sensibili da parte loro in materia di rispetto dell’ambiente e di deflussi minimi, non tali da distinguerle dalle altre società attive sul territorio ticinese e di proprietà delle grandi città “bolsceviche” d’Oltralpe. Caro Dadò, la realtà va guardata con entrambi gli occhi aperti, non con uno solo, quello più comodo…

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