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Per una nuova politica industriale

(Ti-Press)

In Ticino si stanno facendo sentire voci che invocano la necessità di avviare una seria politica industriale. Tra queste, merita di essere ricordato il rapporto di Aiti del 2022 ripreso recentemente dal suo direttore Stefano Modenini e opportunamente ricordato da Ronny Bianchi su ‘laRegione’ del 16 novembre scorso. Si tratta di contributi preziosi che s’innestano su una tradizione di studi di economia regionale troppo a lungo interrotta dall’integralismo di mercato liberista che ha demonizzato qualsivoglia idea di intervento pubblico volto a orientare le logiche economiche. La politica industriale – ossia l’uso di strumenti come sussidi mirati, incentivi e normative per modificare la struttura economica e promuovere il dinamismo in settori considerati strategicamente rilevanti – sembra invece essere tornata con forza, favorita dalle sfide economiche contemporanee e dalle dinamiche globali. Poiché le “soluzioni basate sull’autoregolazione del mercato” e su improbabili teorie dello sgocciolamento della ricchezza sull’economia reale si stanno rivelando sempre più dannose e insufficienti a garantire una prosperità diffusa e condivisa, la politica industriale è tornata in auge, ottenendo ampi consensi sul fronte della ricerca accademica e importanti successi in molti Paesi. Tra gli autori che più si stanno impegnando per dimostrare l’importanza e la necessità della nuova politica industriale, si possono citare, tra gli altri, Joseph E. Stiglitz, Dani Rodrik e Mariana Mazzucato.

Negli Stati Uniti, dove per decenni l’ideologia e la politica dominanti hanno ridotto al minimo gli sforzi e la legittimità dello Stato volti a regolare e sostenere l’economia, si stanno concretizzando l’Infrastructure Investment and Jobs Act, che prevede nuovi investimenti federali nelle strade e nei ponti, nelle infrastrutture idriche, in Internet e altro ancora; il Chips and Science Act, teso a rivitalizzare la produzione nazionale, creare posti di lavoro ben retribuiti, rafforzare le catene di approvvigionamento domestiche e accelerare le industrie del futuro; e l’Inflation Reduction Act, volto a combattere l’inflazione effettuando al contempo investimenti in tecnologie energetiche pulite e soluzioni climatiche. Tutti questi investimenti hanno rilevanti elementi di politica industriale e, rispetto al passato, coniugano sviluppo industriale, sostenibilità ambientale, qualità occupazionale e benessere sociale.

Di solito ciò che avviene negli Stati Uniti ha un’influenza sugli altri Paesi e ne determina gli orizzonti politici ed economici. Non è forse un caso che gli Stati Uniti stiano crescendo a tassi nettamente superiori al resto del mondo, benché i frutti di questa crescita siano ancora in buona parte di là da venire. Così, il Giappone sta sostenendo decine di aziende per incoraggiarle a investire a livello nazionale e ridurre la dipendenza dalla Cina. L’Unione Europea sta intensificando la sua politica industriale accantonando decine di miliardi di euro del suo fondo di ripresa Covid-19 per destinarli alle innovazioni in campo digitale e ambientale (chip, batterie e adattamento climatico).

La sfida strategica non consiste in misure tariffarie protezionistiche tendenti a tutelare ipotetiche filiere locali. Di questo sovranismo economico, delle monocolture, è meglio fare a meno. Ben diverso è puntare su quei settori che garantiscono sia la qualità della forza lavoro sia il suo sviluppo. Se si vuole perseguire queste nuove politiche industriali, allora occorre puntare su quegli ambiti che ne garantiscano il successo e la continuità. Vale a dire l’educazione, la ricerca, la sanità, la socialità e la cultura. Si tratta di un modello di crescita industriale in cui la produzione di soggetti precede quella di oggetti. In cui l’investimento nelle persone è la condizione necessaria per creare quell’ecosistema in cui lo sviluppo industriale non compromette la qualità dell’ambiente, l’equità e la salute delle persone.

Non si vede progettualità in quelle politiche ispirate essenzialmente all’attrattività fiscale come condizione per la crescita economica regionale. Fa più scandalo una posizione agli ultimi posti per attrattività fiscale del nostro cantone che un’analoga posizione per spesa nell’educazione (e questo al netto dei differenziali salariali!). Non solo spendiamo meno nell’educazione, ma in più spendiamo a beneficio di altri cantoni, visti i numeri dei giovani che partono spesso senza l’intenzione di ritornare. Contribuendo così ad appesantire la struttura demografica (e i suoi costi). A voler individuare una qualche forma di progettualità dietro l’ossessione del freno al disavanzo e del pareggio di bilancio, sarebbe quella di minare le basi dello Stato sociale e la possibilità di un rilancio della politica industriale. E questo in un periodo storico caratterizzato dagli strascichi pesanti di una pandemia, da due guerre in corso destinate a durare, da un’incertezza geopolitica crescente, da un’esasperazione della concorrenza a livello globale e da una ridefinizione delle catene di approvvigionamento. Tutti eventi che chiamano in essere un rinnovato ruolo della politica, e della politica industriale, di cui nessun Paese può permettersi di privarsi.

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