I dibattiti

Un cantone neofeudale?

(Ti-Press)

Forse questo non è il periodo migliore per discutere le tesi che il direttore Daniel Ritzer ha illustrato nel suo editoriale del 10 marzo («Il Ticino feudale e la transizione che non fu»). Tesi che intendono proporre un’interpretazione del modello di sviluppo del nostro cantone, a partire da un confronto tra due economisti molto noti negli anni Settanta, l’inglese Maurice Dobb e l’americano Paul M. Sweezy. In quell’occasione l’oggetto del contendere era la transizione dal feudalesimo al capitalismo, argomento che allora si riteneva centrale non solo dal punto di vista storiografico ma anche politico, in prospettiva di un’altra transizione: quella dal capitalismo al socialismo. Entrambi potevano vantare una conoscenza approfondita degli ingranaggi economico-finanziari, esposti in volumi come Problemi di storia del capitalismo (Dobb) e Il capitale monopolistico (Sweezy in collaborazione con Paul M. Baran).

Oggi l’eco di queste discussioni risveglia l’interesse soltanto degli storici, in particolare degli storici dell’economia. La "transizione al socialismo" non è più in agenda da tempo, nemmeno nelle frange più radicali. Ma Ritzer l’ha richiamata per evidenziare un altro aspetto, ossia il carattere neofeudale che il Ticino continua a mantenere nonostante abbia compiuto, negli ultimi decenni, il balzo nella società post-industriale, o società del terziario avanzato. In fondo, sostiene Ritzer, lo schema di fondo non è cambiato, il potere rimane saldo nelle mani di poche famiglie, i centri di comando finanziari e bancari pure, anche se l’ascesa della Lega prometteva sfracelli e dunque anche il tramonto, appunto, delle "grandi famiglie". L’assalto alla Bastiglia presidiata dalla vecchia nobiltà non è riuscito.

La denuncia ha un suo fondamento. Certo, andrebbe precisata, perché le articolazioni e le ramificazioni sono numerose e non tutte immediatamente visibili (i dati fiscali ad esempio non sono pubblici). Sicuramente è calata la fedeltà ai partiti di maggioranza. La loro presa sulle famiglie nella distribuzione di impieghi e mandati si è allentata. In compenso sono cresciute le reti di contatto nell’economia reale, quel fenomeno che i sociologi chiamano "capitalismo di relazione". È in questo "milieu" che ricompare – come giustamente osserva Ritzer – il feudalesimo, ovvero un sistema fondato sui rapporti personali, sulle conoscenze, sulle parentele, sulle amicizie maturate in circoli esclusivi. Per definire il fenomeno, il giornalista economico Paolo Gila ha coniato il termine "capitalesimo", "un sistema capillare e inesorabile di controllo assoluto su un territorio frammentato, una sorta di Sacro Romano Impero della finanza, coi suoi feudatari sempre più potenti, i suoi marchesi, i suoi baroni, i vassalli, i valvassori e la sua plebe sterminata, sempre più povera". In Italia fece scalpore un libro di Stella e Rizzo intitolato La casta. Vendette migliaia di copie ma, come si temeva, l’indignazione non smosse nulla, la casta rimase al suo posto. Da noi nessuno osa inoltrarsi in questa selva, anche perché i dati di cui una seria indagine sociologica dovrebbe disporre non sono accessibili.

Si può però aguzzare la vista, scavare sotto la crosta delle apparenze, incrociare i dati raccolti dall’Ufficio di statistica con le osservazioni dirette. Praticare, insomma, quel tipo di sociologia che Aldo Bonomi riconduce all’atto del "pensare con i piedi". Un approccio pedestre, passo dopo passo, per scoprire chi sono gli attori che, senza dare troppo nell’occhio, stanno ridefinendo i lineamenti fisici (la sottostruttura territoriale) e quelli mentali (la sovrastruttura ideologica) di questo cantone.

L’ipotesi di Ritzer apre piste di ricerca in un campo, quello in cui l’economia e la sociologia s’intrecciano condizionandosi a vicenda, senz’altro suggestivo. La permanenza di una "società neofeudale" dietro le vetrine scintillanti del boom immobiliare e delle criptovalute non trasmette segnali incoraggianti alle nuove generazioni (che infatti preferiscono fare le valigie).

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