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Di quattrini e di ‘milizia’

Le sirene del denaro e dei privilegi impongono etica e nervi saldi, solido retroterra culturale e di formazione, impensabili per certi mediocri miracolati

(Ti-Press)

Quanto rende la politica, e in particolare quella di milizia? La domanda sembra lievemente paradossale, una sorta di espressione ossimorica; in effetti, il concetto di "milizia" allude – nel comune sentire e, forse, nelle intenzioni del legislatori – a quello di servizio e di gratuità, forse di idealismo. Ma, all’infuori di qualche residuale anima bella, nessuno pensa che la politica di milizia venga svolta solo per obiettivi alti, per senso dello Stato, ancora meno per la difesa di cose ormai fuori moda come le idee e i valori.

Ricordo che un maggiorente di partito incaricato di trovare candidati diceva, con ingenua trasparenza e come fosse cosa del tutto ovvia, che per convincere Caio a candidarsi serviva qualche compensazione (anche in caso di trombatura) in termini di mandati remunerati, più o meno pubblici. Quindi, al di là dei vantaggi professionali indiretti legati al prestigio della carica, politici eletti o candidati ricevono o legittimamente attendono prebende, declinate in forme diverse: mandati di consulenza, incarichi spot, nomine in qualche ente regionale, presidenze di associazioni, tranquilli posti di "lavoro", altre poltrone pubbliche, e via inventando. La politica di milizia è, da noi, sempre più roba da ricchi o da professionisti della politica, magari anche peggio. Si aggiunga che in nome della milizia si può rivendicare una libertà di azione, una "flessibilità", che sarebbero difficilmente proponibili per un politico di professione.

Quanto accade al Parlamento europeo scalda gli animi. In parte per le suggestive immagini di borsoni pieni di euri o per il racconto di genitori che, onusti di mazzette, fuggono dalla polizia per tentare di salvare il malloppo dei figli. Al netto della patente volgarità e oscenità dei modi, non mi scandalizza che ci sia qualcuno pronto a sborsare quattrini per farsi promuovere negli alti luoghi della politica, né mi stupisce che ci sia qualcuno che li accetti, monetizzando così il proprio ruolo; rispetto alle prebende di cui sopra, e senza ipocrisia, ci vedo una sorta di minima contiguità. Poi, il lobbista è figura nota e accettata a livello federale; i nostri deputati alle Camere dispongono di accrediti da offrire a coloro che, aggirandosi (pur non eletti) nelle nobili stanze, promuovono ogni sorta di prodotti e di servizi. Non sarebbe scandaloso pensare che, a fronte di qualche occhio di riguardo nella prassi parlamentare e commissionale, vi sia qualche minima ma tangibile contropartita.

In filigrana si coglie il solito tema: quello della carente selezione della classe politica e della variabile qualità intellettuale, culturale ed etica di molti degli eletti, anche a causa del comprensibile disinteresse dei migliori per le cariche pubbliche. Un problema che dovrebbe occupare i partiti, se appunto la qualità dei loro dirigenti non rendesse loro difficile cogliere la gravità del problema, o addirittura la sua stessa esistenza. Le sirene del denaro e dei privilegi impongono etica e nervi saldi, solido retroterra culturale e di formazione, oltre che chiara coscienza del ruolo superiore della politica; arduo aspettarsi queste qualità, e quindi questa capacità di resistenza, da qualche mediocre miracolato, approdato a uno scranno per distrazione, per insipienza o per disinteresse altrui.

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