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Giornalismo, cosa manca

Il giornalismo oggi, una professione fondamentale per la qualità democratica di una società. Un mestiere – sì, usiamo ancora questo nome che deriva da “ministerium” e che vuol dire essere al servizio – che però è sempre più confrontato con problemi e sfide di natura davvero epocale. Per questo il premio giornalistico organizzato a scadenza biennale dall’Associazione ticinese dei giornalisti (Atg) – con il patrocinio del consigliere di Stato Manuele Bertoli e il sostegno di BancaStato – non è solo un concorso. L’edizione 2021 si è conclusa con la premiazione dello scorso 29 ottobre ed è stata anche l’occasione per riflettere su questa professione e sulla sua evoluzione. E in questo senso c’è una domanda, credo, che un’organizzazione come Atg debba sempre porsi, per farne una bussola del nostro agire. E la domanda è questa: cosa manca? Cosa manca ai giornalisti, alle giornaliste, ai fotografi, ai cameramen e agli altri operatori dei media – anche a giornalisti freelance – per poter lavorare nelle migliori condizioni possibili.

Ebbene manca prima di tutto un contratto collettivo di lavoro. In Svizzera romanda ce n’è uno, in Svizzera tedesca e in quella italiana invece da ben 18 anni questo contratto non esiste. C’è un contratto collettivo, uno solo, ed è quello in vigore in casa Ssr e, per quanto ci riguarda, in Rsi. Nel febbraio del 2020, in collaborazione con il deputato al Gran Consiglio Lorenzo Jelmini abbiamo presentato un atto parlamentare sottoscritto da tutti i partiti, Udc esclusa, che chiedeva aiuti pubblici ai media, da abbinare proprio alla reintroduzione di un contratto collettivo di lavoro. La scorsa primavera il governo ticinese ha bocciato questa iniziativa, che ora si trova sui banchi della commissione della gestione del parlamento ticinese. In febbraio a livello svizzero voteremo un pacchetto di aiuti ai media e Impressum, la storica associazione dei giornalisti svizzeri, di cui Atg fa parte, fa un ragionamento simile. Sì al pacchetto di aiuti, ma ci vorranno poi anche un contratto collettivo e un aumento dei salari. E questo proprio perché al capitolo “retribuzione” va ricordato che i giornalisti figurano agli ultimi posti per quanto riguarda lo stipendio versato a chi dispone di un diploma universitario. Il nostro non è dunque un capriccio. Buone condizioni di lavoro permettono di accrescere la qualità del prodotto giornalistico e quindi possono portare beneficio anche agli editori. Contratto collettivo significa dunque innescare un circolo virtuoso. Cos’altro manca? Non c’è abbastanza tempo. Il giornalista si ritrova troppo spesso a lavorare di corsa, con il rischio di sbagliare e di limitarsi agli aspetti più superficiali di una tematica. E qui non finirò mai di ricordare quanto detto, nel settembre di tre anni fa, dall’allora consigliera federale Doris Leuthard, mentre annunciava le sue dimissioni. In quella conferenza stampa si rivolse anche ai giornalisti, esortandoli a chiedere ai loro responsabili il tempo di “recherchieren”. Per essere preparati e autorevoli. Per andare a fondo nel capire e nello spiegare. Non è mai tempo sprecato. Tema a cui è anche legato il giornalismo d’inchiesta, fiore all’occhiello della nostra professione, ma proprio perché richiede tempo – e quindi denaro – è spesso uno dei primi ambiti ad essere sacrificato sull’altare dei risparmi. E qui arriviamo al terzo punto. Mancano i soldi, le entrate pubblicitarie sono in costante calo, come pure la propensione a sottoscrivere un abbonamento. Manca un rapporto solido, duraturo con il pubblico che gironzola a piacimento, se possibile sempre gratuitamente, tra le tante proposte informative che si possono trovare su internet. Parlando di soldi, a livello svizzero c’è un fatto che può sembrare paradossale: i principali gruppo editoriali – Ringier, TX Group o CH Media – non hanno mai chiuso con una perdita i bilanci degli ultimi sei anni. Questi gruppi si muovono ormai anche in altri ambiti più redditizi, siti per la vendita di auto, di immobili o persino consigli per le partorienti… Con un problema: ciò che guadagnano viene solo in minima parte investito nel giornalismo. E qui vorrei citare la recente analisi sulla qualità dei media in Svizzera, per l’anno 2021. Un annuario presentato lunedì scorso dall’Università di Zurigo. Ebbene vi si legge: ‘La crisi dei media è una crisi del giornalismo, non delle aziende e dei gruppi mediatici. Nel giornalismo si risparmia, non si fanno investimenti e le condizioni di lavoro sono a volte precarie’. Non lo dice un’associazione giornalistica e sindacale come la nostra, lo dicono gli esperti dell’Università di Zurigo. Concludo con un dato: si stima che il mercato pubblicitario svizzero perda un miliardo e 600 milioni di franchi all’anno, soldi che finiscono a Google, Facebook e ad altre piattaforme simili. In altri termini questi giganti di internet stanno divorando il mercato pubblicitario dei media svizzeri. E questo senza che la politica abbia fatto di questo problema una delle sue priorità.

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