I dibattiti

Il pareggio è un dovere

A proposito di equilibrio di bilancio, il presidente Plr ricorda: ‘In tutto ciò che facciamo, la nostra più grande responsabilità è generazionale’

(Ti-Press)

Quando scrive Lorenzo Erroi, è sempre questione di aggiungere o togliere una ‘erre’. I suoi commenti sono spesso roba da eroi – in altre occasioni, invece, mi slogo le cervicali per gli errori. L’editoriale di ieri cade nella seconda casistica, nonostante l’impegno per mettere alla berlina chi ha approvato – emendandola – la proposta dell’Udc sulle finanze cantonali. Come noto, ora dovremo riportare i conti del Cantone in pareggio entro una data precisa: il 31 dicembre 2025. E questo senza aumentare le imposte e senza colpire i più deboli.

Conviene partire dalla metafora esposta nell’intervista che funge da ‘booster’ scientifico all’editoriale, e dovrebbe corroborarne gli svolazzi con un’iniezione di «socialismo accademico». Il prof. Sergio Rossi – e chi se non lui – ci spiega che il buon padre di famiglia è ’colui che in un momento di difficoltà, [accetta di] indebitarsi, [per non privare] la sua famiglia di uno standard di vita e di prospettive adeguate’. Suona ragionevole, purché ci mettiamo d’accordo su quale sia l’’adeguatezza’ della quale parliamo – e l’impresa è tutt’altro che semplice. Per esempio, se quel padre stesse discutendo con i figli di 10 e 12 anni, probabilmente si sentirebbe dire che ‘adeguato’ è l’iPhone nuovo ogni anno, il leasing da mille franchi al mese per la Tesla e tre vacanze annue di due settimane alle Maldive – visto che in fondo, per un bambino, chiedere è sempre gratis.

Il problema è proprio questo: nella grande famiglia disfunzionale della politica parlamentare, oggi ci sono un po’ troppi bambini desiderosi. Il risultato è che stiamo normalizzando – con preoccupante spensieratezza – il ‘Regno delle pretese’. A un certo momento occorre però tornare al nostro status di persone adulte con un compito, talvolta ingrato ma sempre onorevole: riaffermare il primato dei doveri sui diritti. Declinato per la gestione finanziaria, questo principio significa che tutte le proposte politiche devono essere valutate ponendo la stessa domanda: ’Chi paga?’.

Ma facciamo un esempio pratico. Ormai sapete che sono un ultras della scuola pubblica: in linea con la più nobile tradizione liberale radicale ticinese, la considero 1) la migliore forma di socialità e 2) lo strumento per sollevare questo Cantone dalla sua arretratezza, reale o percepita. Fossi il decisore unico del Ticino darei a ogni sede, tra Bedretto e la ramina alla frontiera, spazi e strumenti da fare impallidire Abu Dhabi, e costruirei palestre e piscine fino al fondo di ognuna delle nostre valli – costi quel che costi. Se è vero che della scuola pubblica sono un ultras, della responsabilità mi sento un capo hooligan del West Ham – il che mi obbliga ad accantonare questi sogni e a dire che, purtroppo, nemmeno l’educazione può contare su assegni in bianco, almeno finché non avremo trovato il petrolio sotto il lago Tremorgio.

Parlando di finanze, questo senso di responsabilità servirebbe a tutti, indipendentemente dal partito: perché il dovere più grande riguarda chi oggi non può difendersi dalle nostre scelte. Non può farlo perché non è nato, perché minorenne o perché è immaturo e approfitta del suo diritto temporaneo alla spensieratezza (questo sì che è un diritto) per sbocciare in discoteca o leggere Mishima, votare comunista mentre ascolta Manu Chao o suonare il pianoforte alle serate paillettate dei genitori.

In tutto ciò che facciamo, la nostra più grande responsabilità è generazionale. Tenere i conti a posto, perciò, non è un’angheria verso i più deboli: è un modo per evitare di pagare le spese del presente con la Visa dei ticinesi del futuro – proprio ciò che farebbe un padre di famiglia responsabile.

Repetita iuvant: non siamo sbirri che manganellano ogni genere di uscita dello Stato: pediniamo i passi spediti della gestione corrente, non il conto degli investimenti. E anche se non abbiamo nella stanzetta il poster di Ronald Reagan, ecco dunque spiegato perché non ci siamo vergognati di accogliere (emendandola) una proposta altrui, facendo nostra una frase che l’ex presidente considerava tanto importante da indossarla, stampata sui gemelli della camicia: «Non c’è limite a ciò che può fare un uomo, se non gli importa chi si prende i meriti».

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