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Quello che la legge sul CO2 non dice

Chi era in dovere di avvisarci è stato perentorio: potremo contenere a livelli tollerabili gli innumerevoli drammi umani legati all’aumento in frequenza e intensità degli eventi atmosferici estremi – con milioni di sfollati climatici e le conseguenti tensioni etniche e sopranazionali – solo se modificheremo nel più breve tempo la struttura delle nostre economie. Questi scenari non sono già più un’ipotesi, prendono forma quotidianamente davanti ai nostri occhi.

A tal fine, la legge sul CO2 tuttora in discussione, ossia l’impegno della Confederazione a dimezzare le sue emissioni entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990, rischia di non esserci di grande aiuto. La quantità di gas serra prodotta (per CO2 equivalente) entro i confini nazionali, a cui si riferisce la legge, valutata in 5,4 ton/persona/anno (4,3 per la sola CO2, dati Ufam per il 2019), è solo una minima parte delle emissioni di cui è responsabile il paese, siccome ignora totalmente (quanto volontariamente?) quelle prodotte all’estero per beni consumati in Svizzera. Le emissioni in base ai consumi della Svizzera ammontano a oltre 14 ton/persona/anno per il solo CO2, rendendoci il secondo peggiore produttore pro capite al mondo (Global Change Data Lab). Con la definizione adottata, per ridurre le emissioni entro i confini nazionali, è sufficiente dislocare una parte crescente della produzione all’estero, cosa che abbiamo fatto aumentando le nostre dipendenze commerciali. Dal 1990 al 2018, la parte di emissioni di CO2 all’estero dalla Svizzera è passata dal 92% al 225% di quelle indigene. In termini assoluti, la riduzione negli ultimi 30 anni del 15% delle emissioni di gas serra in Svizzera da 54 a 46 milioni di tonnellate di CO2 equivalenti, va confrontata con l’aumento del 40% di quelle legate al commercio estero (beni prodotti e importati in Svizzera per i nostri consumi) da 86 a 120 milioni di tonnellate equivalenti.

Le emissioni di gas a effetto serra antropogeniche provengono essenzialmente dalla produzione di energia, usata a sua volta per produrre i beni e i servizi di cui si occupa l’economia. Non è un caso che quando si corregge il Pil mondiale dall’inflazione, il suo aumento predice esattamente le emissioni globali di gas a effetto serra. Un paese che si pone come obiettivo di ridurre le emissioni e nel contempo parla di rilancio economico in termini di crescita del Pil, si contraddice dimostrando di ignorare completamente i principi fisici all’origine del sistema. Ciò non può che tradursi in un nulla di fatto, che è esattamente quanto osserviamo: la produzione globale di CO2 è continuata a crescere senza alcun cenno di rallentamento malgrado i numerosi impegni presi dai paesi negli ultimi anni. Anche la flessione seguita all’emergenza Covid è stata di beve durata: l’International Energy Agency ha indicato come le emissioni globali sono aumentate del 2% a fine 2020 rispetto al periodo precedente alla crisi. Come già capitato in passato con altre forme di energia, quella rinnovabile è stata solo usata per aumentare i consumi, e non ha contribuito affatto a ridurre l’uso dei combustibili fossili che in dieci anni sono cresciuti in termini assoluti 5-10 volte di più della produzione di energia rinnovabile.

Gli 1,5° dell’accordo di Parigi sono ormai virtualmente superati; la quantità di CO2 già immessa in atmosfera determinerà in modo irreversibile il raggiungimento di quella soglia da qui a 20 anni. Per restare al di sotto dei 2° dovremmo ridurre da subito le emissioni indicativamente del 5% all’anno, ossia una riduzione mondiale del Pil pari a quella prodotta dal Covid, ogni anno per i prossimi 10 anni.

Con l’attuale struttura economica, un aumento locale del Pil con riduzione della CO2 emessa si può raggiungere solo accettando una truffa contabile ben orchestrata. Non riconoscerlo non porterà alcun beneficio alla lotta contro i cambiamenti climatici.

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