Il funerale del Papa è stato un continuo rimando tra terreno e divino. A Santa Maria Maggiore, dove è stato sepolto, la gente è in fila per omaggiarlo
Chissà se l’uomo più potente del mondo, riconoscibilissimo al suo arrivo anche da lontano per la sua chioma platinata e schiacciata sulla testa (e per essere l’unico, tra le autorità, ad aver violato il dress code, che imponeva abiti scuri e una cravatta nera, indossando un completo blu acceso) ha capito, una volta sul sagrato di San Pietro, che l’uomo più potente del mondo era in realtà un altro, chiuso dentro una bara di legno in attesa del suo funerale. Un uomo la cui grandezza non si misura in dazi e rimbalzi di mercato, il cui peso e prestigio sono riflesso del rispetto e dell’affetto altrui, anche di persone lontane dalla Chiesa e che con il messaggio cristiano non hanno o non vogliono avere nulla a che fare.
Papa Francesco c’era per tutti, parlava a tutti, e tutti, nel giorno dell’ultimo saluto, erano lì per lui. Un tutti non riducibile a una questione di numeri, di quantità. Vent’anni fa, per Giovanni Paolo II, era accorsa in Vaticano molta più gente (chi dice 300mila, chi 500mila, a fronte dei 250mila sabato). Nel 1963, i cronisti dell’epoca stimarono addirittura tre milioni di presenti per le esequie di Giovanni XXIII.
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La piazza vista dall’alto
Non sono, appunto, le cifre a contare, ma quanto è variegata l’umanità che è venuta a omaggiarlo, quanto è rappresentativa di mondi lontani, che raramente si toccano: reali e capi di Stato dai volti arcinoti accanto ai rappresentanti di Andorra, Ciad, Gabon e Timor Est; politici e diplomatici arrivati da ogni angolo del pianeta (per Nicaragua, Maurizio Gelli, figlio del piduista Licio); ovviamente i cardinali, i politici della Chiesa. E poi – fianco a fianco – vescovi e trans, preti di strada e signore con cappellini appariscenti come all’ippodromo di Ascot, devoti e atei, buddisti e musulmani, ricche famiglie che hanno potuto permettersi voli da migliaia di dollari e poveri, emarginati, diseredati che lo stesso Francesco, dopo aver dato loro riparo sotto il suo colonnato, si era raccomandato di invitare a questa cerimonia in cui lui c’era e non c’era, in un beffardo paradosso ritrovato nero su bianco anche nei documenti recapitati alla stampa, dove c’era scritto: “Evento: Messa esequiale del Romano Pontefice Francesco”. E subito sotto, “Presenza del Papa: no”.
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L’arrivo dei cardinali
Questo continuo rincorrersi di presenza e assenza, di terreno e divino, di intangibile e inafferrabile e insieme concreto e palpabile è stato il collante di una cerimonia che doveva inevitabilmente contenere più anime: ricordare l’opulenza, la simbologia, il gigantismo e il peso della Chiesa in quanto istituzione millenaria e insieme il messaggio di Francesco.
Il cardinale decano Giovanni Battista Re, durante la sua omelia, lo ha ricordato così: “Aveva grande spontaneità e una maniera informale di rivolgersi a tutti, anche alle persone lontane dalla Chiesa… Ricco di calore umano e profondamente sensibile ai drammi odierni, il Papa ha realmente condiviso le ansie, le sofferenze e le speranze del nostro tempo della globalizzazione, e si è donato nel confortare e incoraggiare con un messaggio capace di raggiungere il cuore delle persone in modo diretto e immediato. Il suo carisma dell’accoglienza e dell’ascolto, unito a un modo di comportarsi proprio della sensibilità del giorno d’oggi, ha toccato i cuori, cercando di risvegliare le energie morali e spirituali… Filo conduttore della sua missione è stata anche la convinzione che la Chiesa è una casa per tutti… capace di chinarsi su ogni uomo, al di là di ogni credo o condizione, curandone le ferite”. Questo significa includere tutti. E tutto. Nel bene e nel male. E così è stato.
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La folla in piazza
Dentro e intorno al funerale di Francesco si è visto di tutto, a cominciare da Trump e Zelensky, faccia a faccia in Vaticano a parlare di guerra e di pace dopo le incomprensioni e i vari incidenti diplomatici tra Washington e Kiev: affari terreni. Nemmeno due ore dopo, durante la benedizione del feretro, mentre echeggiavano i celestiali canti in greco delle suppliche delle Chiese orientali, la maggior parte dei presenti ha avuto un déjà-vu, quando il vento – prima assente – si è alzato all’improvviso girando le pagine del Vangelo posto sulla bara, come accadde già nel 2005 con Giovanni Paolo II. Che sia caso, destino o il soffio dello Spirito Santo, a ciascuno la sua spiegazione, la sua emozione.
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L’incontro Trump-Zelensky
Ci vorrebbe invece una specie di moviola vaticanista di tipo calcistico per cogliere tutti i gesti dei cardinali elettori quando è arrivato il momento dello scambiarsi un segno di pace: chi sorrideva da lontano, chi annuiva, chi si avvicinava, chi stringeva le mani con forza, chi andava a cercare qualcuno spostandosi tra le file e chi, al contrario, cercava di sottrarsi, per quanto possibile davanti agli occhi del mondo.
Come già accaduto nei giorni precedenti dentro la basilica, molti uomini e donne di chiesa non resistono alla tentazione di scattare foto, facendo imbestialire i gendarmi vaticani, costretti a gesti plateali e urlacci pur di farli smettere. Indietro la folla, sempre composta (alcuni, per assistere alla cerimonia il più avanti possibile si sono messi in fila alle 19 di venerdì, quando ancora non era stata chiusa la bara del pontefice), inizia a sventolare bandiere, tante polacche, ma anche italiane, portoghesi, messicane, della pace e - ovviamente - argentine. Sullo striscione più grande si legge: “Adios padre, maestro y poeta”.
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Il vento gira le pagine del vangelo
Quando i sediari riportano la salma di Francesco dentro San Pietro scatta dalle retrovie l’applauso, modo (e moda) di celebrare i morti che ormai ha preso piede anche in Vaticano. Pochi minuti dopo la bara è già in strada, non su un sontuoso e appariscente carro funebre, ma adagiata sopra a una vecchia papamobile usata per i viaggi in Oriente e riadattata per l’occasione in modo da far vedere il feretro a chi, in strada, attende il corteo che conduce, per la prima volta dopo 356 anni la salma di un Papa nella Basilica di Santa Maria Maggiore (era invece da 122 anni, dalla morte di Leone XIII, che un pontefice non veniva sepolto fuori dal Vaticano, in quel caso a San Giovanni in Laterano).
Doveva essere un corteo funebre a passo d’uomo, della durata di ore, invece la papamobile prende un’andatura più sostenuta e nel giro di pochi minuti attraversa Roma, toccando piazza Venezia e lambendo sia i Fori Imperiali che il Colosseo. Le immagini prese dall’alto, dagli elicotteri, con la gente a bordo strada a fare foto, sbracciarsi, salutare, fanno assomigliare le riprese dell’ultimo sacro viaggio di Francesco a una profana tappa del Giro d’Italia. La gente osserva sui maxischermi, commenta, chi crede continua a pregare per lui, alcuni appoggiati alle transenne, altri in ginocchio, altri ancora si avvolgono con la bandiera del proprio Paese; poi ci sono quelli che scandagliano la piazza facendo incetta di copie dell’Osservatore Romano, alcuni ne hanno così tante sotto braccio che la gente li scambia per quelli che dovrebbero consegnarle. I gruppi organizzati dalle parrocchie – formati perlopiù da giovani e giovanissimi – si mettono in cerchio e tirano fuori il pranzo al sacco, mentre chi è venuto per omaggiare l’uomo più che il Papa comincia a guardarsi intorno, vista l’ora, in cerca di un ristorante o almeno un panino da mettere sotto i denti.
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Il passaggio del corteo funebre al Colosseo
Francesco viene infine tumulato a Santa Maria Maggiore in forma privata davanti agli occhi dei cardinali, dei suoi più stretti collaboratori e di alcuni parenti. Nessun altro è potuto entrare fino a stamattina alle 7, eppure già all’alba ha iniziato a formarsi la testa di un serpentone destinato a restare tale per giorni. Alle 10 – a tre ore dall’apertura – la coda si estendeva per tutto il perimetro della chiesa e oltre, occupando tutti i marciapiedi, sfiorata da macchine e autobus che hanno ripreso a circolare dopo la chiusura del traffico imposta per quasi 24 ore.
Appoggiato alla transenna c’è un frate immobile, con le mani giunte, completamente insensibile ai rumori della piazza. Accanto c’è Regina Tana, una uomo trans con in mano una foto di Francesco e la scritta Santo Subito (“Ha fatto tanto per la comunità Lgbt”) e un gruppo di argentini con la maglia di Maradona con su scritto “Un solo Dios” (buona per cattolici e calciofili), come Agustín, un bonaerense tifoso del San Lorenzo (la squadra di Francesco) trasferitosi a Roma da poche settimane, e che ancora non conosce bene la lingua né la città, visto che aveva immaginato di poter arrivare a San Pietro, nel giorno dei funerali, in macchina (“Alla fine abbiamo capito che era meglio lasciar perdere e venire direttamente qui”).
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La bara entra in Santa Maria Maggiore per la sepoltura
La tomba del Papa, quasi a voler proseguire questa infinita narrazione in cui cielo e terra, divino e umano continuano a dialogare, trova posto dove una volta c’era un piccolo sgabuzzino dove venivano tenute le scope, in mezzo a due confessionali.
Aveva scelto lui quella posizione, assicura un gruppo di vaticanisti convinto che la tumulazione sia stata pagata personalmente dal re di Spagna Felipe (protodiacono della basilica papale, da sempre associata alla monarchia spagnola): sarebbe lui infatti il misterioso donatore presente nel testamento spirituale del pontefice, lo stesso in cui Francesco ha spiegato anche perché voleva essere sepolto proprio lì, il luogo in cui andava a pregare ogni volta che tornava da un viaggio apostolico. Che il Papa della gente comune – figlio di una città viva, disordinata, rumorosa e sregolata come Buenos Aires, sorella sudamericana di Roma – non riposi lontano da tutto e tutti, in un luogo ovattato, ma al contrario in una basilica papale a due passi dalla stazione Termini, costretta suo malgrado a fungere da immensa e sacra rotatoria dentro al caos capitolino, non deve stupire.
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Una rosa bianca sulla lapide
La congrega di vaticanisti al seguito nel frattempo è ancora lì che gioca a chiedersi che succederà, ora. E soprattutto quando. Il più temerario, che continua a fare battute sulla morte (compresa quella del Papa) irritando alcuni colleghi più rigidi (“Ipocriti”, li chiama lui), si lancia in una spericolata previsione, omettendo però l’identità del successore di Francesco. “Il Conclave lo anticipano di un giorno perché in Vaticano hanno fretta, sapendo che un accordo subito non lo troveranno. Quindi si inizia a votare già il 5 maggio, fumata bianca alle 16.30 di giovedì 8 all’ottavo scrutinio. Nome scelto dal Papa: Giovanni XXIV”. Chissà.