Estero

Acqua paludosa, acqua di pace

Azzam Alwash rischia la vita per ripristinare le paludi mesopotamiche prosciugate dall’‘ecocidio’ di Saddam Hussein. Ma perché?

(Keystone)
23 agosto 2023
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«L’acqua unisce». Mentre il gesto convergente delle sue mani chiama a raccolta mille gocce immaginarie, Azzam Alwash – ospite sabato scorso al Mem Summer Summit dell’Università della Svizzera italiana (vedi sotto) – ti fissa intensamente negli occhi: l’incedere del ragionamento di questo climatologo e ingegnere idraulico è una piena che nell’acqua immerge e unisce la storia, la politica e le guerre che hanno attraversato il suo Paese, l’Iraq, e l’intero Medio Oriente. Solo lasciandosi travolgere si può cercare d’indovinare perché lui, che ai tempi del ‘regime change’ americano aveva 45 anni, abbia abbandonato la sicurezza e gli agi della California per tornare nella nazione che aveva lasciato da giovane laureando pur di non doversi arruolare nel Ba’th, il partito di regime. Il tutto, peraltro, in nome d’una causa che a un primo sguardo parrebbe secondaria e donchisciottesca, per una terra così insanguinata: la ricostituzione delle paludi mesopotamiche, un’area di circa seimila chilometri quadrati solcata dai fiumi Tigri ed Eufrate, bonificata attorno al 1991 da Saddam Hussein.

Meglio l’acquitrino

Certo, quelle terre sono state la culla di parecchie civiltà: sumera, assira, caldea, persiana, araba. Ma perché un rispettato ingegnere dovrebbe rischiare la pelle per ricreare un acquitrino? «È quello che mi chiede un sacco di gente, la prima volta che mi conosce!», esclama accompagnando con una risata bonaria il suo inglese dalla delicata inflessione mediorientale: «Molti pensano che le zone umide siano solo un luogo di zanzare, malattie e arretratezza, pensa solo all’idea che ci siamo fatti della Louisiana... Tant’è vero che gli inglesi avevano già provato a bonificare le paludi a sud dell’Iraq. Però è proprio lì che gli ecosistemi dell’intera regione trovano il loro equilibrio, è lì che l’acqua scorre dalle montagne al Golfo persico, garantendo la prosecuzione della vita e assicurando la fertilità. Non è un caso che ne siano usciti almeno ottomila anni di civiltà fiorenti, prima dell’ecocidio di Saddam».

Rimediare a quell’ecocidio significa restituire ai perseguitati la loro terra. Perché la bonifica del 1991, spiega Alwash, non è stata motivata dalla necessità di nuovi terreni agricoli, come voleva la propaganda: «È impossibile ottenere a lungo grandi raccolti su quel tipo di terreno, una volta che lo si priva delle piene. Semmai, Saddam ha prosciugato l’area per privare i suoi oppositori – gruppi sciiti e altre organizzazioni della resistenza – di un rifugio dal quale sapeva di non poterli scacciare altrimenti».

La famiglia di Alwash proviene da quella regione, lui si ricorda ancora la natura lussureggiante di quand’era bambino e non dimentica quel che è successo dopo: «Quando le sanzioni resero impossibile esportare anche una sola goccia di petrolio, il regime investì lo stesso quasi tutte le sue risorse per costruire dighe e argini che bloccassero le esondazioni del Tigri e dell’Eufrate, e la zona diventò all’improvviso un deserto desolato. Si trattò di un’impresa ingegneristica stupefacente, questo è sicuro, ma anche di un atto di guerra».

L’operazione, infatti, «privò della sussistenza tra le 250 e le 300mila persone, le quali non poterono più raccogliere i fusti di canna, allevare il bufalo d’acqua, pescare. Questi profughi si rifugiarono nell’Iraq del nord, in Iran e in occidente. Molti divennero dipendenti dagli aiuti dello Stato, che così poté controllare ancor più rigidamente il Paese, dando la colpa alle sanzioni per le difficoltà».

Cambiare regime (idrico)

Avanti veloce. Un decennio dopo, l’11 settembre spinge gli Stati Uniti a imbarcarsi nella disastrosa invasione dell’Iraq. Mentre Washington cerca di giustificare l’intervento tirando fuori dal cilindro inesistenti armi di distruzione di massa, «io stavo già dicendo da anni che la vera distruzione di massa in Iraq avveniva controllando un semplice elemento: l’acqua», osserva Alwash. Fatto sta che anche lui trova maggiore attenzione nei circoli di potere dentro la Beltway, «anche se non sono così stupido o arrogante da pensare che tutti pendessero dalle mie labbra, e non posso approvare quanto hanno poi combinato gli Stati Uniti, consegnando il Paese a gente che non crede nella democrazia…». Ad ogni modo, la caduta di Saddam nel 2003 permette ad Alwash di tornare in patria per ripristinare le paludi ormai ridotte a polvere. Invece di ritenerlo un folle, sua moglie lo esorta a partire: «Mi ha dato il coraggio per farlo – sia benedetta la sua anima – dicendomi che se non avessi cercato di realizzare il mio progetto sarei diventato solo l’ennesimo vecchio brontolone».

Alwash e la sua organizzazione non governativa – Nature Iraq – trovano un aiuto inaspettato nella mobilitazione spontanea della popolazione locale. «Sono stati loro a tornare nelle loro terre per riscattarle, facendo il possibile per abbattere dighe e argini e permettere le esondazioni. Noi ci siamo limitati a mettere a disposizione le nostre competenze ingegneristiche. Un giorno di dicembre del 2003 mi resi conto che la rottura di una singola porzione di un unico argine avrebbe cambiato tutto, consentendo il tipo di allagamento poco profondo che ci serviva. Allora sono andato da un tizio che aveva gli escavatori e gli ho chiesto se me ne prestava uno, io ci avrei messo il carburante. Al primo colpo di benna, dovevi vedere come sgorgava l’acqua, con quale forza ha tirato giù tutto il resto dell’argine!», ricorda ancora esultante.

Da deserto a ‘foresta’

Da allora, «nel giro di sei mesi il deserto è ridiventato una foresta, una foresta di canne! E le canne sono la base della nostra civiltà: è con le canne che costruiamo capanne e foraggiamo i bufali, le utilizzavamo perfino per scrivere sulle tavolette d’argilla... In poco tempo gli uccelli e il bufalo sono tornati, il vecchio ecosistema ha recuperato la sua diversità». Sono così tornati anche donne e uomini, «seguendo l’acqua e riconquistando le loro terre, perché dodici anni di siccità non potevano soffocare millenni di civiltà».

Ma – gli chiediamo – quelle persone non si erano nel frattempo abituate a lavori ‘normali’, all’elettricità in casa e altre comodità del genere? Alwash è sincero: «Non voglio venderti l’idea romantica d’un popolo che torna alla natura abbandonando scuole, ospedali, infrastrutture. Ma se una volta ci volevano tre ore per andare in canoa dalle paludi alla città di Al-Chibayish, ora si possono usare barche a motore e restare connessi, tanto che gli abitanti della città, scesi a soli 6mila dopo la bonifica, ora sono svariate decine di migliaia». L’immagine più espressiva di questa vita ibrida? «Le capanne di canne affiancate da un generatore e con una parabola satellitare sul tetto. La vita è sempre dura, perché vivere della raccolta di canne per il commercio e l’allevamento richiede lunghissime ore di fatica, ma ora è possibile fare quella scelta liberamente, ritrovare la propria vita e le proprie tradizioni».

Quel che resta da fare

Oggi i rischi corsi da Nature Iraq – per la quale Alwash ha ottenuto il Premio Goldman, che il Guardian definisce “Oscar verde” – sono tutt’altro che scomparsi. La sua vita e quella dei suoi collaboratori sono state minacciate più volte, numerosi i rapimenti: «Lo scorso febbraio a essere rapito è stato il mio braccio destro, torturato finché non siamo riusciti a ottenerne la liberazione». Per un paio di settimane, il poveretto si è ritrovato appeso per le mani legate dietro la schiena, frustato, bastonato, sottoposto a scosse elettriche. Lo stesso Alwash è dovuto fuggire, ora vive all’estero: «Mi hanno informato del fatto che la mia vita era in pericolo perché le milizie vicine a Hezbollah presenti nell’area, molto legate ai potentati del Paese, sono convinte che io sia un emissario del Mossad. Non ho idea di come gli sia saltata in mente una fantasia del genere, ma è vero che al giorno d’oggi molte Ong sono trattate alla stregua di agenti stranieri, in Iraq come in Iran».

Dal punto di vista ambientale, il principale problema che resta da risolvere deriva, ancora una volta, dal fatto di «non lasciare scorrere l’acqua». Le dighe in Siria e in Turchia la bloccano a monte, senza garantire i giusti afflussi, per non parlare del rischio che alcuni di quegli invasi – in particolare la famigerata diga irachena di Mosul, ritenuta la più pericolosa al mondo – collassi sommergendo la città. Più a valle, sprechi ed evaporazione complicano il quadro. «La gente dice che le dighe sono il futuro, che sono utili per generare energia pulita. Però il loro uso contribuisce anche a scombinare gli equilibri naturali», nota Alwash, che invoca un cambio radicale nella gestione delle acque a livello regionale.

Visioni ingegneristiche

Ma come? Visto che nel suo animo l’ingegnere convive col visionario, Alwash, che oggi ha 65 anni, disegna davanti a noi lo schema d’un grandioso progetto che proprio attraverso la gestione dell’acqua promette di garantire la pace in Medio Oriente («l’acqua unisce», appunto): «Invece di raccoglierla in bacini a valle, dove fa più caldo e dunque l’evaporazione è maggiore, sarebbe meglio trattenerla nelle dighe turche, in montagna, garantendone però la disponibilità adeguata. L’Iraq potrebbe pagare tale servizio con petrolio e gas a prezzo politico. Allo stesso tempo si dovrebbe modernizzare l’irrigazione, in modo da sprecare meno acqua per innaffiare i campi e mutando coltivazioni, preferendo frutta e verdura a riso e grano, raccolti ‘assetati’ e sui quali l’Iraq non può competere con grandi fornitori quali Ucraina e Canada. Intanto, il gas iracheno potrebbe essere trasportato dalla Turchia in Europa, e potremmo rafforzare i commerci tra Europa e Asia aggiornando infrastrutture già esistenti».

E la transizione alle rinnovabili? «Possiamo già affrontarla, approntando grandi ‘foreste’ di pannelli solari in Paesi assolati quali l’Iran e l’Arabia Saudita; quell’energia potrebbe poi essere immagazzinata in forma di idrogeno verde. Come nel caso della Comunità del carbone e dell’acciaio, che da un accordo produttivo e commerciale tra pochi Paesi ha visto nascere l’Unione europea, così questo tipo di rete potrebbe portare stabilità alla regione...». Per farcela, però, «le diverse tradizioni islamiche, in particolare quelle dominanti in Turchia, Iran e Arabia Saudita, dovrebbero smetterla di competere tra loro come invece stanno facendo da decenni, in particolare dopo la crisi del socialismo panarabo».

Campa cavallo, ci vien da dire, ma Alwash ribatte: «Prima o poi, quella cooperazione sarà comunque resa necessaria dalla bancarotta economica della regione. A quel punto, tra l’altro, anche l’occidente saprà che deve supportare la transizione, invece di sprecare soldi in improbabili piani di controllo militare: se non lo farà, il rischio è quello di subire flussi migratori enormi che andranno certamente a investire l’Europa, non l’India o la Cina... Che sia per ragioni umanitarie o per interesse nazionale, insomma, questo è il prezzo della pace».

L’evento

Mediterraneo e oltre, voci di cambiamento

Si concluderà sabato con una giornata aperta al pubblico nell’Aula magna del Campus Ovest a Lugano (info e iscrizioni su www.mem-summersummit.ch/forum) la sesta edizione del Middle East Mediterranean (Mem) Summer Summit, piattaforma di incontro e dialogo promossa dall’Università della Svizzera italiana. Nei nove giorni del seminario – spiega l’organizzazione – 40 giovani “change-maker” (portatori di cambiamento), selezionati tra 500 candidati e provenienti da più di 25 Paesi diversi, “incontrano esperti e partecipano a workshop” in “uno spazio sicuro per favorire un dialogo aperto” sul bacino mediterraneo, il Medio Oriente e le loro sfide politiche, economiche, sociali.

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