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La confusa stagione della politica Usa

A Washington, tra t-shirt e primi addobbi natalizi, il Paese non ha ancora ben capito come siano andate le elezioni. Ma Trump è livido

In una Washington dove giri in t-shirt tra i primi addobbi natalizi, con le rondini sopra la testa e le foglie ingiallite tra i piedi che intasano i vialetti, non solo si fatica a capire in che stagione siamo, ma anche chi ha vinto davvero queste elezioni che dovevano essere la valanga trumpiana. Valanga che invece pare aver investito proprio lui, il Donald furioso, dal cui staff filtrano indiscrezioni che lo raffigurano "livido" e in preda a una serie di urlacci contro chiunque gli capiti a tiro.

Niente di diverso da un suo normale comizio, penserà qualcuno, ma la differenza questa volta c’è: Trump urla perché i repubblicani sono andati bene, ma non quanto atteso. Di sicuro non benissimo. E non sono andati benissimo proprio per colpa sua, anzi dei candidati a lui più vicini, anzi delle sue scelte, che ora – com’è nel personaggio – sta provando a far ricadere su altri. Col senno di poi sembrano sempre più sciagurate le scelte di almeno due candidati senatori ultraconservatori e ultratrumpiani, il fedelissimo Mehmet Oz in Pennsylvania ed Herschel Walker (l’antiabortista che pagò per far abortire due donne che aspettavano un figlio da lui) in Georgia. Sono quelle che, per un soffio, possono lasciare il Senato in mano ai Democratici e sostanzialmente tutto com’era: ovvero 50 senatori a testa, ma con la bilancia che pende dalla parte di Biden, perché in caso di pareggio durante le votazioni si aggiungerebbe la vicepresidente Kamala Harris. Per ora, a conti quasi fatti, siamo 50 a 49 per i repubblicani.

Ma, come si conviene a una buona sceneggiatura Made in Usa, c’è un colpo di scena: in Georgia nessuno dei due candidati ha raggiunto il 50 per cento necessario per essere eletto (il 2% l’ha raccolto il candidato del Partito libertario Chase Oliver) e si andrà al ballottaggio il prossimo 6 dicembre.

In molti fanno notare che un candidato con meno ombre e un curriculum più istituzionale di Walker avrebbe probabilmente vinto evitando il ballottaggio con il democratico Warnock. Bastava forse il classico signor nessuno, quello il cui volto intercambiabile può essere del postino, del vicino di casa o di quei politici tutti uguali che popolano gli scranni di mezzo mondo. Trump ha voluto un nome riconoscibile (un’ex stella del football) e rischia di pagarla cara.

Stesso discorso per Oz, forse il più trumpiano del lotto, in uno Stato, la Pennsylvania, che aveva fatto capire in tutti i modi di volere un senatore più moderato. Lui, a differenza di Walker, non ha più speranze. Annusata l’aria, altri due cavalli di Trump, Blake Masters (in Arizona) e Ron Johnson (in Wisconsin), negli ultimi tempi hanno cercato di smarcarsi dal loro sponsor e anche da certe posizioni troppo nette sui temi più caldi (dalla pagina ufficiale di Masters sono spariti la scritta "100% pro-life" e alcune frasi antiabortiste). Johnson ce l’ha fatta per qualche migliaio di voti, Masters è finito nella sequela di urlacci di Trump.

Intanto, in Florida, la scintillante vittoria di Ron DeSantis fa pensare a lui come il vero candidato repubblicano alle prossime presidenziali del 2024, quello in grado di battere innanzitutto Trump alle primarie e poi i democratici (vedi accanto, ndr).

‘Too close to call’

Il Gop, come da previsioni, è davanti alla Camera (dove venivano rinnovati tutti i 435 deputati e dove partiva da -9), ma nessuno ancora si azzarda a certificare l’annunciato ribaltone: troppe situazioni "too close to call". La vera differenza l’avrebbe fatta la vittoria in Senato: se ottenuta con gli uomini di Trump, saremmo stati vicini al cataclisma politico e alla dilagante incontinenza verbale e scenica dell’ex presidente, a cui il columnist di The Atlantic, David Frum, ha ricordato un paio di cose, mettendo in guardia i repubblicani dal continuare a farsi dettare l’agenda da lui: "Trump ha guidato il Gop verso una lunga serie di sconfitte. Ha perso il voto popolare del 2016 (eletto presidente con tre milioni di voti in meno di Hillary Clinton), ha perso la Camera nel 2018. Ha perso il voto popolare e la presidenza nel 2020. Poi ha perso il Senato nel 2021. Dal 2000 ci sono state sei elezioni presidenziali e dodici candidati. Trump, per numero di voti, è decimo su dodici: è dietro perfino a Mitt Romney, John Kerry e Al Gore".

Insomma, sembrava arrivato il momento del grande ritorno di Trump, invece ora resta da capire come proverà a prendersi di nuovo spazio. E se i repubblicani lo lasceranno di nuovo fare: una strategia apparentemente suicida, visto che alcuni candidati di Trump alla Camera e in alcune elezioni locali sono riusciti a perdere anche in collegi considerati blindati (in Colorado, Ohio, North Carolina e Pennsylvania).

Due Stati diventano blu

Mentre si fa la conta delle prime volte (Maura Healey, prima governatrice omosessuale del Massachusetts, Wes Moore, primo governatore afroamericano del Maryland, James Roesener, primo uomo transgender eletto alla Camera, Markwayne Mullin, primo nativo cherokee in Senato dopo quasi vent’anni…), i democratici si scoprono più forti anche su un terreno da sempre importante, come quello dei governatori, dove sono riusciti a strappare due Stati ai repubblicani. Anche per questo Joe Biden è apparso rilassato durante l’incontro con la stampa, dove ha esordito dicendo che l’America "ha dato una lezione di democrazia" e che la "grande ondata rossa non c’è stata". Ma l’ondata sì.

Con la Camera ormai data per persa, Biden ha però puntato i piedi su temi che considera non negoziabili come l’aborto e il programma Medicare (l’assicurazione sanitaria per i più poveri) e bollato come ridicole le accuse contro di lui e contro il figlio che una parte di repubblicani vorrebbe usare per arrivare all’impeachment. Il suo discorso è stato pragmatico, di chi sa di avere da oggi una strada più stretta da attraversare da qui al 2024: è chiaro che non esce bene da questo referendum di metà mandato sulla sua presidenza. Forse servirà un passo indietro, di cui per ora non fa menzione, non si sa perché: crede davvero di poter essere rieletto o – semplicemente – non è ancora il momento. D’altronde, se si escludono Lyndon Johnson e Calvin Coolidge (che iniziarono il primo mandato per sostituire un presidente morto e poi si candidarono una sola volta), bisogna tornare al 1880 e a Rutherford B. Hayes per vedere un presidente in carica farsi da parte in vista di una rielezione.

Mentre la conferenza stampa del presidente prosegue con un considerevole numero di risate da pericolo scampato, poche strade più in là un ragazzo con una maglia di "Biden 2020" entra in una caffetteria di Capitol Hill e risponde al barista che gli chiede com’è stata la sua giornata: "Ottima. Sono due giorni che non si vede una nuvola, vado in bici in maglietta e non ho incrociato orde di folli che provano a occupare il Congresso".

Da qualcosa, per essere ottimisti, bisogna pur ripartire.

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