Era l’otto aprile, quando un missile di fabbricazione sovietica esplose alla stazione dei treni e uccise 57 persone e fece 114 feriti
Il giorno dopo la strage la stazione di Kramatorsk è deserta. C’è solo un grande silenzio, irreale, che contrasta terribilmente con quello che avveniva fino a poche ore prima, tutti i giorni. Prima c’era il frastuono della vita. Le migliaia di persone accalcate, le valigie, le risate, il parlare, gli addii sulla banchina. Ora c’è il silenzio della morte. Un nastro di plastica bianco e rosso impedisce l’accesso alla biglietteria. Dei paramedici militari, sul piazzale, setacciano la carcassa di un’auto bruciata. Di tutto quel fuoco, di quanto distrutto, rimane una giacca di pelle mangiata dalle fiamme. Dentro, i militari trovano un portafoglio e un cellulare. Il cellulare è ancora attivo. L’unico modo, forse, per identificare quel corpo carbonizzato. Sulla banchina di attesa rimangono oggetti, sparsi a terra. Ricordano una installazione artistica, un quadro astratto, macchiato di pozze di sangue secco.
Qui c’era un cane morto ai piedi della sua padrona, un’anziana signora, morta. E più in là, vicino alla vetrata della stazione, c’era una ragazzina bionda, che avrà avuto sui dieci, dodici anni. Era senza i piedi, tranciati da una scheggia di bomba all’altezza delle caviglie. C’erano delle persone accanto a lei, c’era sangue. Lei non urlava. Guardava il cielo. Gli occhi fissi.
Sparite le persone, spariti i corpi di chi è morto, dei feriti, rimangono frammenti delle loro vite. Il rosso lasciato dai loro corpi. Un thermos, delle riviste. I paramedici, in mezzo al puzzo del sangue rappreso, trovano un dito. E poi altri resti, che ripongono in un sacchetto. I cani randagi sono già passati la notte, nessuno più dà loro da mangiare. Questioni di sopravvivenza.
Il missile è ancora sul piazzale. «Abbiamo avuto cinquantasette morti e centoquattordici feriti. Ottanta persone sono state evacuate a Dnipro, il sindaco della città, Boris Filatov, ha inviato delle ambulanze per trasportarle», dice il sindaco di Kramatorsk, Olexandr Golchenko.
«Non volevamo lasciarle qui – prosegue – dovevamo portarle in posti più sicuri. Nessuno si aspettava una cosa del genere, certo ci aspettavamo attacchi, come quelli già avvenuti, ma non un attacco contro dei civili alla stazione. Non sappiamo ancora perché abbiano voluto fare una cosa del genere. Il razzo è un Tochka-9 di produzione sovietica e i russi e i separatisti li hanno, non possono negare una evidenza. Tutti abbiamo visto cosa c’è scritto su quel missile: per i bambini, ma nessuno ha capito il perché lo hanno scritto».
Yulia è in macchina. È tranquilla. Le chiedo se sta bene, se non è stato un trauma per lei assistere a tutto quello. Se dorme. Lei risponde di sì, sorride. Poi sale a casa e prende il suo monopattino elettrico. Ma Yulia non sta bene, Yulia si sveglia di notte perché continua a sentire le esplosioni, continua a vedere la morte. Lo scriverà più tardi in un messaggio, che non è vero che sta bene, che sta male, molto male. Yulia è una giovane donna di trent’anni, con una vita normale, che insegnava informatica. Oggi vuole arruolarsi e vuole morire. Andare via da qui, da Kramatorsk questa volta, significa lasciare su quell’asfalto un pezzo del proprio cuore. I russi a Nord, poco distante, continuano ad accumulare truppe e materiali: centinaia di lanciatori Grad arrivano da oltre confine. I battaglioni tattici presenti prima a Kyiv in parte vengono ridispiegati nel Donbass. I russi avrebbero perso almeno il venticinque percento delle proprie forze. Circa ventimila uomini. Il Donbass è l’ultima carta che ha il presidente Putin per conquistare un lembo di terra che costerà altri anni di guerra e instabilità. Un modo per non tornare indietro solamente con migliaia di sacchi neri, ma anche con una misera vittoria da dare in pasto al suo popolo, alle madri di quelle migliaia di soldati morti.
La macchina rallenta davanti a un pub di Dnipro. Scendono due uomini, due ufficiali dell’esercito ucraino. È un piccolo pub del centro, con gli arredamenti in legno. I due uomini ordinano un tè nero. Pavlo Khazan è un ecologista, ex vicepresidente del Partito dei Verdi d’Ucraina ed ex leader della campagna di ‘Friends of the Earth Ucraina’. È un musicista, ha un Phd in statistica e, dal 2014, è un militare. Khan ha fondato un’organizzazione non governativa, la National defense foundation, per sostenere i soldati ucraini che combattono nella guerra nel Donbass. «Il mio nome è Pavlo Khazan, maggiore delle forze armate ucraine, ufficiale dell’unità C4. Sono stato nuovamente mobilitato quando questa invasione ha preso piede e prima avevo già partecipato alla guerra russo-ucraina nel 2014. Il mio primo impiego in combattimento è stato a Mariupol. La mia vita e la vita dei miei amici e dei miei familiari è cambiata molto dall’inizio della guerra; nella vita civile faccio cose assolutamente diverse, sono uno scienziato ambientale, un ingegnere. Mi sono sempre occupato di sostenibilità ambientale ed energia pulita, di ecologia, ma quando è iniziata la guerra nel 2014 ho capito che questa guerra non era solo una guerra tra Russia e Ucraina, era una guerra tra Russia e mondo civilizzato. Fortunatamente adesso la maggioranza dei politici nel mondo l’ha capito». Alla domanda cosa ne pensa del regime russo quando definisce gli ucraini ‘nazisti’, risponde: «Sono ebreo e come ebreo sto per celebrare la Pesach questa settimana (la settimana scorsa, ndr) e nella mia famiglia ebrea i miei nonni hanno partecipato alla Seconda Guerra Mondiale per proteggere le nostre terre dai nazisti. Questa idea dei nazisti in Ucraina è malata, buona parte della mia famiglia è stata mobilitata e anche molti amici nella comunità ebraica o di altre confessioni religiose, di altre minoranze si sono arruolati per difendere il Paese. I veri fascisti, i veri nazisti, si trovano a Mosca».
Pavlo poi si reca al memoriale dei caduti, al Raket Park, poco distante dai palazzi governativi. Ci sono diverse stele, con i nomi dei caduti di Dnipro. Ogni stele è scritta in una lingua diversa. Ce n’è una anche in ebraico. Dicono che a Dnipro circa il sessanta percento della popolazione ha sangue ebreo o è in qualche modo legata alla comunità ebraica. Al Menorah center, il più grande centro culturale ebraico del mondo, da settimane arrivano decine e decine di sfollati ebrei. La maggior parte vengono da Kharkiv e dal Donbass. Il rabbino Shmuel Kaminezki è il motore instancabile di questa comunità.
È tempo di uscire dal Paese, dopo cinquantasette giorni, dopo aver visto un Paese sovrano e democratico essere invaso, massacrato, violentato, torturato. Cinquantasette giorni durante i quali migliaia di persone sono passate davanti agli occhi dei cronisti, delle televisioni, dei collegamenti in diretta, delle bombe, delle corse in macchina, delle esplosioni, delle urla. Un’adrenalina continua. Il pullman a due piani aspetta gli ultimi viaggiatori. Molte sono persone anziane. Sono tutti sfollati in viaggio verso la Moldavia. Ore per arrivare al confine, evitando Mykolaiv e Odessa. Poi, la frontiera. Dopo due ore di attesa, il pullman passa la dogana. Niente più sirene, morti, feriti, bombardamenti, palazzi e città distrutte. Niente più armi, divise, città militarizzate, checkpoint, cavalli di frisia, molotov. Come per l’asfalto di Kramatorsk, anche qui, passando da una terra all’altra, un altro pezzo di cuore viene lasciato cadere a terra.