Il reportage

Kramatorsk, 8 aprile: arriva il maledetto missile. È un massacro

Non è pensabile che sia la stazione, nessuno farebbe mai una cosa del genere, tutti sanno che in quel luogo ci sono donne e bambini. E invece è successo

I corpi di chi non ce l’ha fatta vengono stesi uno accanto all’altro, per terra, e poi coperti con un telo di plastica verde
(Keystone)

Fugge la gente dal Donbass. Decine di migliaia di persone cercano una via d’uscita dalla regione dell’est che Mosca vuole conquistare per farla diventare parte del suo territorio. La strada che porta a Dnipro, per buona parte dei suoi duecentocinquanta chilometri, è una lunga coda di autovetture, autobus, mezzi di ogni tipo che tentanto di raggiungere luoghi più sicuri a ovest. E questo avviene da giorni. I russi cercano di salvarsi da questo fallimento militare, da questa assurda invasione dell’Ucraina iniziata lo scorso ventiquattro di febbraio: per portare a casa queste terre, sono disposti a tutto. Gli ucraini, soldati e volontari, hanno sconfitto gli invasori a Kyiv, Chernihiv, Sumy, combattono per riprendere Kherson nel sud e per contenere i russi che spingono dalla Crimea verso Zaporizhzhia. Ma la guerra adesso si è spostata principalmente di nuovo nell’Est. Dove tutto è partito, otto anni fa.

Kramatorsk, città deserta

Le persone scappano da Sjeverodonetsk, da Slovyiansk, da Kramatorsk e da tanti altri paesi e villaggi. Come Kharkiv, paesaggi e aree urbane diventano luoghi disabitati, fantasma. "La città prima della guerra aveva circa 220mila abitanti, oggi ne sono rimasti circa 100mila. Ogni giorno almeno 4mila persone se ne vanno", dice Oleksandr Golcharenko, sindaco di Kramatorsk. "Qui tutti sono preoccupati per le loro vite, i militari russi dicono che vengono a liberare le nostre città ma non c’è nessuno dal quale devono liberarle. Al contrario, ci bombardano. Stiamo cercando di mettere da parte acqua, cibo e medicine per poter resistere almeno un mese, in caso venissimo circondati". La città è deserta. I negozi, a parte qualche supermercato, sono tutti chiusi. Sacchi di sabbia coprono entrate e vetrine. È stato dato l’ordine di evacuazione. La stazione di Kramatorsk da settimane è affollata. Sin dalle prime ore del mattino, si accalcano le persone, molte le donne, i bambini e le persone anziane. Pochi gli uomini.


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È stato dato l’ordine di evacuazione

Qui tutti ricordano i pochi mesi di occupazione separatista avvenuta tra l’aprile e il giugno 2014. Un’occupazione militare effettuata con il pugno di ferro dal famigerato Igor ‘Strelkov’ Girkin, allora comandante delle forze separatiste. Colonnello dell’esercito russo, un passato militare in Cecenia, ex agente del’Fsb, i servizi segreti russi. "Strelkov aveva emanato una serie di editti secondo cui la stessa legge marziale che era in vigore durante la Seconda Guerra Mondiale lungo la linea del fronte avrebbe dovuto essere in vigore a Sloviansk e nelle città sotto il suo controllo, come Kramatorsk. E questo significava che anche un reato minore come rubare un paio di pantaloni da una casa abbandonata era considerato saccheggio. E la pena per il saccheggio era la morte", racconta Simon Ostrovsky, ex inviato di Vice News e oggi corrispondente speciale per la televisione americana Pbs. Anche lui si trova in Ucraina in questi giorni. Nell’aprile 2014 era stato sequestrato dagli uomini di Girkin. Tenuto per tre giorni in uno scantinato, interrogato e malmenato. Sospetta spia, dicevano i miliziani. Gli stessi che sequestrarono in quel periodo degli osservatori Ocse: merce di scambio per liberare prigionieri in mano al governo ucraino. Gli stessi che rapirono, torturarono e uccisero cinque membri della chiesa pentecostale di Sloviansk. Accusati anche loro di essere spie, solo perché di fede protestante.

Il nemico è vicino

Il nemico è di nuovo vicino, adesso. Molto più potente rispetto agli infiltrati russi del 2014 e i loro alleati locali. Le truppe russe muovono verso sud, dopo aver preso Izyum e Rubizhne. I soldati ucraini tentano con ogni mezzo di fermare la loro avanzata. Da alcuni giorni le forze russe sono impegnate in una manovra a tenaglia che punta a colpire da due direzioni le difese ucraine nel Donbass. "Se nel 2014 la situazione era abbastanza confusa per i separatisti ed erano mal armati e senza aerei, oggi i russi usano bombe ad altro potenziale, missili balistici, distruggono scuole e case. Le persone non vogliono rimanere nelle loro città se queste diventeranno un campo di battaglia e se i separatisti e i soldati russi le conquisteranno", spiega il sindaco Golcharenko.

Tutti hanno negli occhi la tragedia di Mariupol e poi i massacri di Bucha. Tutti hanno visto come è stata ridotta Kharkiv, bombardata giorno e notte, i loro abitanti allo stremo, costretti a vivere nelle metropolitane o in appartamenti dove la morte bussa a ogni ora. La linea ferroviaria che collega il Donbass con il resto del paese viene continuamente bombardata. I missili continuano a cadere in lontananza. Forti boati scuotono l’aria di Kramatorsk. Le sirene antiaeree suonano per ore. Un razzo Iskander cade poco fuori Sloviansk. Esplode in aria, forse per un malfunzionamento, o forse perché intercettato, su un gruppo di case di campagna.

In mezzo all’orrore

Un uomo corpulento è appoggiato a una vecchia Lada. È senza maglietta, ha del sangue e tagli sulla schiena. Era in casa quando una delle parti del razzo ha sfondato il tetto della sua casa. È ancora vivo, e non sa neanche lui come sia successo. Rottami e detriti sono dappertutto. Parte dell’abitazione ha preso fuoco, le condutture del gas soffiano, squarciate dalle schegge, soffiano fuori violente nuvole di fiamme. Polizia e soldati cercano di raggruppare i resti del missile cercando nell’erba e sulla linea ferroviaria, a pochi metri di distanza. Poi arriva quel maledetto missile. Venerdì 8 aprile 2022. Yulia è al suo primo giorno come volontaria in stazione. Insieme ad altri uomini e donne, cerca di organizzare il flusso di persone lungo i binari per portarli ai treni di evacuazione. Deve prendere servizio davanti a un tendone color verde militare, utilizzato come struttura di accoglienza. Un luogo dove si può prendere un tè caldo e mangiare qualcosa. L’appuntamento con lei è proprio davanti a quel tendone, ma Yulia non sa bene l’inglese e spesso utilizza un traduttore che ha sul telefonino. Per scriverci un messaggio e tradurlo si ferma. Cinque minuti di ritardo che le salvano la vita. Noi siamo in macchina lungo un viale che, salito un ponte, sulla destra supera i binari ferroviari e porta alla stazione. È poco prima di prendere quel viale, che sentiamo una forte esplosione. Julia manda un video. Dura pochi secondi. Si vedono delle alte fiamme e delle macchine completamente distrutte, sventrate dall’esplosione e divorate dalle fiamme. E poi vediamo un fumo nero, denso, salire verso il cielo. Non è pensabile che sia la stazione, nessuno farebbe mai una cosa del genere, tutti sanno che in quel luogo ci sono donne e bambini, semplici civili che cercano solo di andarsene da questa città. E invece è successo. La macchina sorpassa un gruppo di veicoli bloccati in coda e s’inchioda nel parcheggio del piazzale. Urla, persone che scappano, pianti. Un uomo grida, chiede aiuto, chiede dei tourniquet, i lacci emostatici di tipo militare che fermano le emorragie massive. È un massacro. Decine di corpi martoriati, feriti, urla, grida di disperazione e di dolore. Sangue dappertutto. Soldati, poliziotti e semplici civili cercano di fare quello che possono per portare aiuto all’enorme numero di persone ferite, tagliate, mutilate dagli shrapnel, le taglienti schegge di bomba. Una donna è seduta su un muretto, la testa reclinata da un lato. C’è un cane ai piedi della sua padrona, entrambi sono morti sul colpo. Una ragazza urla a terra, gli occhi sbarrati, le mancano entrambi i piedi. Il sangue imbratta le pareti, il terreno, i corpi dilaniati dei morti e quelli dei moribondi. Una gabbietta con un topolino è rimasta lì, accanto a delle borse piene di vestiti. Il topo si guarda intorno, la gabbietta è aperta, ma non esce, aspetta l’essere umano che se ne prendeva cura. Che non c’è più. Pozze di sangue e resti di corpi straziati. Per terra, parte delle loro vite. Occhiali, borse, un cavallino di pezza imbevuto di sangue. I primi soccorsi arrivano, qualsiasi cosa è buona per fermare le emorragie: pezzi di tela e penne diventano rudimentali salvavita. Siamo nel mezzo di questo inferno. Io e i miei colleghi, Luciana e Andrea, persi e sconvolti in questo vortice di dolore e sbigottimento. Ci sono bambini e tante, tante donne. Hanno colpito i civili, hanno ucciso persone che tentavano solo di andarsene. Il caos è totale, arrivano i primi soccorsi, i vigili del fuoco, i militari. I poliziotti portano via chi riesce a camminare o è miracolosamente rimasto illeso. Aiuto altre persone a trasportare una ragazza all’interno di una macchina, ha ferite alle gambe e all’addome, urla. Ho sulle mani il suo sangue. C’è chi guarda muto, attonito, davanti a sé. Impietrito dal dolore e dallo stupore. I corpi di chi non ce l’ha fatta vengono stesi uno accanto all’altro, per terra e poi coperti con un telo di plastica verde. Un poco di pietà per i loro volti sfigurati.


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Un cavallino di pezza imbevuto di sangue

È stato sconvolgente vedere colpire in maniera indiscriminata semplici persone che stavano solo cercando una via di fuga. Si cerca di portare via i feriti con le macchine, sugli autobus, ovunque ci sia un mezzo per portarli via. Più di trenta cadaveri vengono caricati su un camion. Poco distante, in una chiesa evangelica, vengono portate centinaia di persone. Non tornano a casa, non vogliono più tornare. Vogliono solo partire, andare via, uscire da questo incubo. Molti vengono portati a Sloviansk con degli autobus, per cercare di proseguire il loro viaggio utilizzando parte della linea ferroviaria, che è ancora integra.

Luciana piange, la telecamera in mano, non la usa e piange. Andrea mi guarda, ha le lacrime pure lui, mi guarda e mi abbraccia. Io sono seduto per terra, ho il respiro pesante, tremo. Perché nonostante anni di guerre e conflitti, non ero preparato a finire in mezzo a tutto questo, e perché, in fondo, non ci si abitua mai all’orrore.


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Hanno colpiti i civili che tentavano solo di andarsene

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