Estero

Gino Strada, il chirurgo che faceva la guerra alla guerra

Il fondatore di Emergency aveva 73 anni. Diretto e divisivo, ha aperto ospedali nei luoghi più pericolosi del mondo salvando 11 milioni di vite

Gino Strada (Keystone)
13 agosto 2021
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Gino Strada diceva sempre quello che pensava, senza filtri. Era spigoloso quanto cristallino. Spesso disturbante, talmente esplicito e diretto da risultare alla lunga prevedibile, dopo anni passati a raccontarsi, spiegare chi era lui e cos’era Emergency. Eppure ha fatto fatica a farsi capire: da chi si divertiva a fraintenderlo, per ideologia o per invidia, ma anche da chi - a parole - condivideva le sue idee senza portarle mai dove le portava lui, nella realtà. Quel salto, che molti predicano e pochi fanno, tra il pensare e l’agire, è stata la vera differenza che ne ha fatto un personaggio, una star, dove di solito i personaggi non esistono.

Nominate un altro medico di guerra, così, su due piedi. Niente. Verranno in mente sigle, associazioni come la Croce Rossa o Medici senza Frontiere, ma una faccia no. Anche perché la faccia, come lui, nessuno l’ha messa mai. Nelle interviste ripeteva: “Non sono pacifista. Sono contro la guerra”, eppure ha passato una vita in trincea, a sporcarsi le mani, di fango e sangue. Parlando così, metteva una barriera tra sé e la cosa che odiava più al mondo, la guerra, ma anche tra sé e i pacifisti da salotto; tra sé e i polemisti d’accatto, quelli che lo facevano imbestialire nei programmi tv a cui lo invitavano, straparlando di migranti e guerre che non conoscevano. Lui la guerra non l’ha vista solo da vicino, l’ha cercata, curata, ce l’ha portata in casa mostrandoci le conseguenze delle armi scintillanti: i corpi martoriati.

Il santo laico

Ora che Gino Strada - morto per arresto cardiaco a 73 anni mentre si trovava a Rouen, in Francia - non c’è più, bisogna fare i conti con la sua eredità e con questa processione infinita e perlopiù stucchevole che si è accodata a questa specie di santo laico del nostro tempo. Uno che non porgeva l'altra guancia, ma s'incazzava davanti a discorsi e uomini meschini.


Strada con una maglia di Emergency (Keystone)

Nato a Sesto San Giovanni, città ultra-operaia del Milanese, studiò da medico rimanendo segnato dai cinque anni passati con la Croce Rossa nelle zone di guerra, tra il 1989 e il 1994. Una volta rientrato a casa, tutto quel che accadde dopo accadde un po’ per caso e molto per volontà. Con la moglie Teresa e altre venti persone voleva fondare un’associazione per fare qualcosa in Ruanda: tirarono su 12 milioni di lire, ma ne servivano almeno 250. Quando si stava autotassando insieme agli altri venti, fu invitato al Maurizio Costanzo Show: potere della tv, pochi giorni dopo in cassa c’erano 850 milioni (circa 470mila franchi di oggi). Da lì Emergency partì e non si fermò più: 11 milioni di pazienti in 19 Paesi, otto progetti ancora aperti. Una persona curata ogni minuto.

L'esperienza di Kabul

Tra i simboli di Emergency c’è l’ospedale di Kabul, realizzato nel 1999 e ancora attivo. Paolo Ferrara, oggi counsellor dell’Ente ospedaliero cantonale, nel 2004 era un infermiere specializzato in terapia intensiva partito a Kabul come formatore. “Gino pretendeva sempre il massimo, ma non lo imponeva. Ti faceva capire quanto erano importanti il rigore, la tenacia e soprattutto la dignità, nostra e di chi soccorrevamo. Voleva l’eccellenza, perché secondo lui tutti meritavano, meritano le cure migliori. Dare il massimo lì era facile, perché da un punto di vista umano ricevevi tantissimo da lui e da tutto il mondo di Emergency, staff e pazienti”. Di Strada, Ferrara ricorda soprattutto la sua capacità di ascoltare, anche - e forse soprattutto - chi non la pensava come lui, e il carattere, la lucidità nel dire sempre quel che pensava: “Con le istituzioni era duro perché viveva sulla sua pelle le difficoltà della politica e della burocrazia, con le persone invece si apriva, sapeva accoglierti, comprenderti, nel giro di un’ora di me aveva capito tutto. Sapeva valorizzare gli altri, ricordo un inserviente afghano senza braccia che, grazie a un particolare strumento, faceva le pulizie nell’ospedale. Gino lo riempiva di complimenti non perché gli faceva pena, ma perché capiva che il lavoro sodo e l’impegno andavano premiati. Si arrabbiava molto quando vedeva chi non dava il meglio, ma in quell’ospedale era praticamente impossibile, ci sentivamo investiti di una missione”.

In Italia e non solo si è spesso polemizzato sulla grande cura e la pulizia degli ospedali di Emergency arrivando a sostenere che i fondi non fossero usati in modo corretto: “Lui invece voleva semplicemente che quegli ospedali splendessero e fossero luoghi dove avremmo mandato un nostro familiare a curarsi. Posti dove tutto risultasse pulito e sicuro, anche se fuori c’erano le bombe, le macerie. Si è polemizzato perfino sui disegni nelle camere dei bambini o sul fatto che Emergency usasse soldi per i fiori e le altalene, ma avreste dovuto vederli questi bimbi con addosso i drenaggi che salivano sulle altalene, ridevano, giocavano, senza le preoccupazioni che ci sono in Occidente. Quelle altalene contribuivano alla loro guarigione quanto le nostre cure”.


Un ferito portato nell'ospedale di Emergency a Kabul (Keystone)

Il senso di impotenza che a volte arrivava davanti alle tante tragedie vissute e viste in un ospedale di guerra, Strada lo combatteva - per sé e per noi - ricordando che “per arrivare all’obiettivo, che è un mondo senza più guerre, dovranno passare mille anni. E anche se non lo vedremo, dobbiamo fare al meglio la nostra parte”.

L'utopista

Tante sono le sue frasi da guru che - a leggerle in controluce - sapendo che provengono da un uomo che di mestiere si è scelto il chirurgo di guerra, sortiscono un effetto molto terreno e poco ultraterreno, come “Non sento il bisogno di credere in Dio, il significato delle cose sta nelle cose stesse, non al di fuori o al di sopra”. Si definiva utopista, perché secoli fa erano utopisti quelli che sognavano la fine della schiavitù, e se gli dicevano che non era neutrale, rispondeva che “nessuno lo è mai davvero”. Prendere una posizione, soprattutto nella sua posizione, non era facile, ma si sentiva inattaccabile, perché, prima e dopo aver parlato, faceva: negli ospedali di Emergency chiunque si presenti alla porta viene curato, senza alcuna distinzione. Chi accoglie tutti poi può anche decidere da che parte stare.

Era dogmatico in questa ricerca ossessiva della pace e della convivenza, ma non lo era quando, da uomo di sinistra, si smarcava dai tabù di una parte politica ancora rigida e incasellata: maltrattava i politici che scendevano in piazza per la pace e votavano le guerre in Parlamento, osava attaccare i palestinesi quando capì che lì un suo ospedale non poteva farlo, perché tanti soldi degli aiuti umanitari venivano spesi in altri modi e di Emergency si sarebbero solo approfittati. “Prendo denaro da tutti, ma non dai criminali o da chi vuole decidere chi devo curare”. Ha trattato con Al Bashir in Sudan e negoziato per salvare degli ostaggi. Diceva: “Mi sono sempre chiesto se certe cose avrei dovuto farle oppure no, ma penso che si debba sempre fare qualcosa per chi sta peggio di te. Anche per questo non sopporto chi se la prende sempre con chi sta peggio di lui, addossandogli ogni colpa dei suoi guai, non prendendosela mai con chi sta meglio”.

Due anni fa, intervistato dal Corriere della Sera, si dichiarò stanco e afflitto da “una malattia inguaribile, la vecchiaia”. E se è vero, come è scritto nel Talmud, “che chi salva una vita salva il mondo intero”, lui se ne va dopo aver salvato, con Emergency, 11 milioni di mondi. Forse anche per quello, mentre invecchiava, hanno pensato bene di dedicargli un asteroide.


Strada dopo la liberazione di un giornalista italiano ostaggio dei jihadisti (Keystone)

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