Estero

Cartoline da Pyongyang

Samuel Iembo (Giovani comunisti) racconta la Corea del Nord

10 agosto 2019
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Il mese scorso, in Corea del Nord, il consigliere nazionale Ppd Claude Béglé non era il solo svizzero. C’era anche una delegazione di sette Giovani comunisti ticinesi, invitati ufficialmente dai loro corrispettivi coreani. L’itinerario includeva la capitale Pyongyang, la zona demilitarizzata fra le due Coree, la città di Kaesong e alcune aree di interesse turistico, oltre a incontri bilaterali con funzionari quali il presidente della Lega della gioventù e rappresentanti del Dipartimento delle relazioni internazionali.
Abbiamo parlato col capodelegazione, lo studente di psicologia Samuel Iembo, per farci raccontare cos’ha visto, e soprattutto come lo interpreta.

Iembo, che cosa l’ha colpita di più in Corea del Nord?

Ci ero già stato cinque anni fa, dunque la cosa che mi ha colpito di più sono stati gli enormi passi avanti a livello tecnologico. Soprattutto a livello di approvvigionamento elettrico: a Kaesong praticamente ogni casa è alimentata da pannelli solari. Sono cambiamenti che mi hanno colpito, dato che conosciamo tutti le difficoltà economiche del paese.

Avete incontrato anche il consigliere nazionale Ppd Claude Béglé?

Sì, ma solo per un quarto d’ora. Ci ha confermato le sue impressioni positive. Noi gli abbiamo riferito che ci faceva piacere che anche gli esponenti di altri partiti fossero interessati a vedere con i loro occhi la situazione nordcoreana.

Avete mai potuto muovervi liberamente?

Una sera abbiamo potuto girare un’oretta intorno all’hotel, è stato proprio un funzionario a proporcelo. Per il resto, il programma era molto denso e non siamo usciti da soli.

Non le è mai venuto il sospetto che le stessero nascondendo qualcosa, il lato crudele di un regime sanguinario?

Beh, non saprei dire se ci hanno nascosto qualcosa o meno. Però i funzionari sono stati disponibili a rispondere anche a domande difficili, ad esempio sul problema della povertà in periferia.

D’accordo, la povertà. Ma i 120mila prigionieri che Amnesty International stima si trovino nei loro campi di concentramento (vedi sotto)? Il 40% di popolazione che il regime ha messo al bando fuori dai centri urbani e privato di una vita dignitosa? Ne avete parlato?

Siamo rimasti entro i termini di un dialogo rispettoso dell’ospitalità, e improntato a migliorare il dialogo, non a chiuderlo. Bisogna anche tenere conto del fatto che stiamo parlando di un paese asiatico, non occidentale. Una cultura gerarchica e collettivista è comune non solo in Corea del Nord. In molti paesi dell’Asia la comunità riveste un’importanza prioritaria rispetto ai diritti individuali. Anche per questo vige una forte tutela di diritti quali quello alla casa, alla sanità e all’istruzione, che da noi non si trova e là magari risulta prioritaria rispetto ai diritti individuali.

Infatti se critichi il regime ti sbattono in un lager. Non le pare di giustificare certi abusi solo alla luce del relativismo culturale?

Non si tratta di relativismo culturale, si tratta di rispetto per un sistema così diverso. Fermo restando che molto spesso certe uccisioni e altre notizie riportate dalle fonti internazionali sono state smentite, per quello che ho visto si tratta anche di una società più tranquilla della nostra, dove ad esempio si vede meno polizia. Certo, c’è un sistema punitivo diverso da quello carcerario che c’è da noi. D’altronde, quando gli abusi dei diritti umani riguardano l’occidente, passano sotto silenzio e se a rilevarli sono persone come Julian Assange (il fondatore di WikiLeaks, ndr) si ritrovano perfino estradate.

Però quando sono americani o europei a violare i diritti umani, voi lo denunciate con forza. In questo caso, avete rilasciato un comunicato senza nemmeno una parola sul tema.

Noi denunciamo l’imperialismo. Denunciamo l’interferenza nell’autodeterminazione di paesi terzi. A noi non interessa impartire lezioni a un altro paese. E comunque non vogliamo chiudere la porta a una condivisione che aspira alla pace internazionale. È importante garantire maggiore benessere per tutti sulla penisola, superare le sanzioni internazionali e denuclearizzare seriamente la zona, da entrambe le parti.

Quale evoluzione auspica per le due Coree?

Come molti, credo che la soluzione migliore sia una Corea unificata, e organizzata secondo un federalismo che permetta al Nord e al Sud di mantenere autonomamente il loro sistema di governo.

Comunisti e liberaldemocratici sotto lo stesso tetto. Le pare possibile?

Non sarà facile, certo. Intanto però bisogna continuare con un dialogo costruttivo e senza pregiudizi.

Insomma, lei è convinto che la Corea del Nord sia una democrazia?

Credo che ci sia un elemento importante di democrazia: ci sono assemblee a tutti i livelli della società, che poi riportano le istanze della popolazione fino ai comitati centrali. E il cambiamento si vede, come nella recente revisione della costituzione.

Ci saranno pure tante assemblee, ma c’è un partito solo.

In realtà sono tre: quello dei lavoratori, quello religioso Chondoista e quello socialdemocratico.

Non sono solo nomi diversi per la stessa cosa?

Da quello che mi è stato detto, ciascuno rappresenta interessi diversi e si procede in un’ottica di collaborazione. Ad esempio, i socialdemocratici – che ho incontrato 5 anni fa con la delegazione del Partito Comunista – danno voce a una sorta di piccola borghesia.

Lei andrebbe a vivere in Corea del Nord?

Da occidentale, penso che dovrei nascerci per poter essere veramente adeguato a quel sistema. Dopo tutto la mia forma mentis è europea.

E cosa importerebbe in Svizzera del sistema nordcoreano?

Difficile ragionare in astratto. Una cosa che ritengo positiva è il loro senso di comunità, paragonato all’estrema freddezza delle relazioni qui da noi.

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