Estero

Trump: sesso, soldi e potere

Il presidente statunitense accusato dal suo avvocato: ordinò pagamenti illegali alle amanti. Il suo stratega frodava il fisco

23 agosto 2018
|

“Follow the money”. Seguite i soldi. La vulgata cinematografica attribuisce a quest’imbeccata lo scoppio dello scandalo Watergate, pietra tombale della presidenza Nixon. Dopo 44 anni la stessa strategia investigativa minaccia Donald Trump, che martedì sera ha dovuto assistere alla condanna in contemporanea di due (ex) uomini di fiducia. Un tribunale della Virginia ha riconosciuto colpevole per frode fiscale e bancaria Paul Manafort, capo della campagna elettorale di Trump durante la calda estate del 2016. Neanche il tempo di battere la notizia, e da New York è arrivata una scoppola ancora più secca: la dichiarazione di colpevolezza presentata da Michael Cohen. L’avvocato e braccio destro del presidente ha ammesso l’uso illecito di fondi elettorali - su espressa richiesta di Trump -per comprare il silenzio di una pornoattrice e di una modella di ‘Playboy’, con le quali The Donald ebbe relazioni extraconiugali. E potrebbe non finire qui.

A preoccupare la Casa Bianca è anzitutto il caso di Cohen. Per evitare decenni di prigione, ha confessato di essersi fatto surrettiziamente rimborsare dal comitato elettorale di Trump i 130mila dollari pagati per far tacere la pornostar Stephanie Clifford, in arte Stormy Daniels. Altro denaro del comitato è servito a insabbiare la relazione con la coniglietta Karen McDougal: in questo caso Cohen ha finanziato l’acquisto dell’esclusiva sulla storia da parte di un tabloid amico, con l’impegno di non pubblicarla. Trump ne era informato – lo testimonia una registrazione – e Cohen ha esplicitamente ammesso di aver agito “in collaborazione e su indicazione del candidato, al fine di influenzare l’esito delle elezioni”. E poi c’è Manafort, architetto della campagna elettorale nei mesi in cui emersero i primi sospetti di ‘hacking’ russo contro Hillary Clinton, nonché spin doctor di vari partiti filorussi in Ucraina. Costretto a dimettersi a causa di queste amicizie scomode, Manafort si è rifiutato di collaborare col procuratore speciale Robert Mueller, che indaga sul Russiagate. La condanna di martedì nasce da quanto scoperto durante l’indagine, ma fa riferimento ad affari personali: milioni di dollari nascosti su conti correnti stranieri mai dichiarati e frodi bancarie per ottenere prestiti milionari. Fra un mese avrà inizio un altro processo contro Manafort a Washington, con accuse che spaziano dal riciclaggio allo spionaggio. La paura del carcere potrebbe indurlo a ‘cantare’ in merito alle ingerenze di Mosca nella campagna elettorale.

Lo stesso potrebbe fare Cohen per ottenere ulteriori sconti, come paventato dal suo difensore Lanny Davis: “Credo che abbia informazioni che dovrebbero essere di interesse per Mueller e sia più che felice di raccontargli tutto ciò che sa”. E ora? Se Trump fosse un privato cittadino, basterebbe l’accusa di “collaborazione” mossa da Cohen per incriminarlo. Ma la prassi del Dipartimento di Giustizia scoraggia l’imputazione di un presidente in carica, che peraltro si trascinerebbe sine die davanti alla Corte Suprema. Per la procedura ‘politica’ di impeachment serve invece una ‘pistola fumante’ che confermi le tesi del Russiagate. Se ne spuntasse una e a novembre i Democratici riconquistassero la Camera come previsto, l’ipotesi si farebbe più probabile. Nessuno è mai sopravvissuto neppure al semplice avvio della procedura: anche Richard Nixon gettò la spugna prima di arrivare fino in fondo. Intanto, a pagare alle urne il conto lasciato aperto dagli ‘uomini del presidente’ potrebbe essere un Partito repubblicano già profondamente diviso. 

 
Quei bravi ragazzi

Amico e confidente di Donald Trump da oltre 12 anni, Michael D. Cohen (New York, 1966) ha iniziato la sua carriera come importatore di auto di lusso, poi è diventato avvocato specializzandosi in infortuni. Dopo una parentesi nel business dei taxi di New York e Chicago (insieme all’affarista russo ed evasore fiscale Evgeny Friedman), è entrato in quello delle scommesse in Florida con due soci ucraini. E poi nightclub frequentati da mafiosi russi, ambulatori medici e di agopuntura. Infine la difesa di Trump in cause legate ai suoi progetti immobiliari, che lo ha condotto alla vicepresidenza della Trump Organisation. In questo ruolo ha gestito investimenti in Russia, Georgia e Kazakistan, oltre a supportare la breve avventura del magnate nell’organizzazione di eventi di arti marziali (Affliction Entertainment). Nonostante fosse un fedelissimo di quello che lui chiama “Mister T” (come il nerboruto interprete della serie televisiva ‘A-Team’), Cohen è stato scaricato non appena il procuratore Mueller e l’Fbi hanno perquisito il suo ufficio e la sua abitazione nell’ambito del Russiagate, l’inchiesta sull’ingerenza russa nell’elezione del presidente. Ieri Trump ha piantato l’ultimo chiodo nella bara di un’amicizia con un tweet: “Se qualcuno sta cercando un buon avvocato, suggerirei caldamente di non rivolgersi ai servizi di Michael Cohen”. In tutta risposta, Cohen ha fatto sapere che rifiuterebbe la grazia da un uomo “corrotto e pericoloso”.

Avvocato, lobbista, consulente elettorale è invece Paul J. Manafort, nato in Connecticut nel 1949. Si è fatto le ossa nella Washington politicante che i detrattori chiamano ‘the swamp’ (la palude) come consigliere dei candidati Gerald Ford, Ronald Reagan, George Bush padre e Bob Dole. Nella lista dei suoi clienti spuntano anche l’ex presidente ucraino Viktor Janukovyc (in esilio in Russia con l’accusa di alto tradimento), i partiti filorussi in Ucraina, l’ex dittatore filippino Ferdinand Marcos, quello dello Zaire Mobutu e il guerrigliero angolano Jonas Savimbi, oltre all’ex premier francese Édouard Balladur. Lasciò la campagna di Trump dopo l’accusa di avere ricevuto milioni di dollari in pagamenti illeciti da un partito ucraino vicino al Cremlino. Oltre alla condanna per frode fiscale pendono su di lui le accuse di corruzione di testimoni, ostacolo alle indagini, riciclaggio, spionaggio e congiura contro gli Usa. È sospettato dagli inquirenti del Russiagate di avere fatto da ponte fra Putin e Trump.

Di recente, infine, l’ex capo della Sicurezza nazionale Michael Flynn e il consulente elettorale George Papadopoulos hanno ammesso di avere mentito all’Fbi in merito alle relazioni del presidente Usa con la Russia.

Resta connesso con la tua comunità leggendo laRegione: ora siamo anche su Whatsapp! Clicca qui e ricorda di attivare le notifiche 🔔
POTREBBE INTERESSARTI ANCHE