Estero

Repressione popolare sandinista

Gruppi armati ‘orteguisti’ in azione in Nicaragua alla vigilia del 39esimo anniversario della ‘Revolución’

((Keystone))
21 luglio 2018
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Giovedì ricorreva il 39esimo anniversario della rivoluzione popolare sandinista. 19 luglio 1979: in Nicaragua i guerriglieri del Fronte sandinista di liberazione nazionale (Fsln) entrano nella capitale Managua, la quarantennale dittatura della dinastia Somoza è finita. Il ‘barrio’ di Monimbó, a Masaya, fu uno degli epicentri dell’insurrezione popolare guidata dal ‘Frente’. Quasi quarant’anni dopo, è proprio lì – in un luogo simbolo della ‘Revolución’ – che s’è scatenata la furia della polizia e dei gruppi paramilitari o parapolizieschi vicini al presidente ed ex leader rivoluzionario Daniel Ortega.

Mercoledì la Policía Nacional e gruppi di persone armate hanno rimosso le barricate erette dalla popolazione e preso il controllo del centro di Masaya, città a 30 chilometri da Managua, diventata il simbolo della resistenza anti-governativa. L’operazione di ‘pulizia’ è durata parecchie ore, in particolare nel quartiere della comunità indigena di Monimbó, e ha avuto un bilancio, per un ampio uso di armi da fuoco, di almeno tre morti e numerosi feriti. Le vittime – un agente di polizia, un ragazzo di 15 anni e una donna – sono state confermate dall’Associazione nicaraguense per i diritti umani (Anpdh). La sicurezza e la pace sono state ripristinate, ha dichiarato Rosario Murillo, vicepresidente e moglie di Ortega.

La battaglia di Masaya è l’ultimo di una serie di scontri cominciati in aprile, all’annuncio da parte di Ortega di un taglio delle pensioni. Il progetto è poi stato ritirato, ma la spirale della violenza si era già innescata. Il movimento di protesta si è man mano esteso. E chi scende nelle strade ora chiede le dimissioni del presidente. Gruppi locali di difesa dei diritti umani stimano in oltre 300 le vittime. A queste, stando all’Anpdh, si sommano centinaia di feriti, 158 persone scomparse e oltre 200 detenute illegalmente.

La repressione – dalla quale l’esercito, istituzione ‘figlia’ della ‘Revolución’ e che gode di grande rispetto in Nicaragua, si è finora chiamato fuori – è ormai apertamente diretta anche contro la Chiesa. Domenica il vescovo di Estelí Abelardo Mata, tra le voci più critiche nei confronti di Ortega, è scampato a un agguato attribuito a forze paramilitari. Leopoldo José Brenes Solorzano, arcivescovo di Managua, ha lanciato un appello: «Esercitate pressione sul governo, affinché abbia rispetto per i vescovi, per i sacerdoti e per la popolazione». Intanto 13 Paesi latinoamericani hanno manifestato “preoccupazione per la violazione dei diritti umani e le libertà fondamentali, e la più ferma condanna per i gravi e reiterati atti di violenza”. Luis Almagro, segretario generale dell’Organizzazione degli Stati americani, ha proposto quale via d’uscita dalla crisi elezioni anticipate.

Ortega non ne vuole sapere. Il 72enne – che dell’insurrezione sandinista fu uno degli artefici – si aggrappa al potere con tutte le sue forze. Come ha sempre fatto. Dopo il ‘triunfo’ del 19 luglio 1979, si impose come uno degli uomini forti del governo rivoluzionario. E nel 1985, mentre impazzava la guerra dei ‘contras’, venne eletto una prima volta presidente. Sconfitto alle urne nel 1990, da allora padre padrone di un Fsln vieppiù piegato ai suoi desideri, è tornato alla presidenza nel 2006 ed è stato rieletto due volte. Oggi l’ex leader rivoluzionario esercita un controllo ferreo sulle principali istituzioni statali e anche sul potere giudiziario. Ma senza scomodare strutture e principi dello Stato di diritto, dei quali Ortega e il suo clan continuano a farsi beffe, la sfida ora è capire come porre fine alla repressione attuata dalle forze paramilitari o parapoliziesche che imperversano in tutto il Nicaragua.

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