laR+ sulla croisette

A Cannes una sorpresa indiana e una somala

Il grande cinema di Payal Kapadia e, Fuori concorso, di Mo Harawe. Con, in Concorso, la delusione di Gilles Lellouche

Kani Kusruti, la regista Payal Kapadia e Divya Prabha
(keystone)
24 maggio 2024
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Strana giornata in Concorso, mentre un forte vento semina i fogli di carta che stanchi ancora esistono. Già, ricordiamo le tonnellate di carta che ogni anno si spandevano sulla Croisette; oggi, degni eredi di Greta Thunberg, ti guardano male se stampi un biglietto o leggi un libro cartaceo, tutti in fila col telefonino col QR Code del film. E la fila è quella, di ragazzine e ragazzini e spietati recensori, a una presa elettrica per ricaricare il prezioso ex telefonino. Il fatto è che, in nome di una fittizia sicurezza, è stato eliminato il valore delle tessere d’entrata, preferendo il valore di una prenotazione, ma un festival non è una comune sala cinematografica e i produttori dei film si stanno lamentando. Perché un Festival non serve per vedere i film con gli amici, ma per promuovere il Cinema.

Intanto in competizione sono passati altri due film: ‘All We Imagine As Light’ di Payal Kapadia e ‘L’amour ouf’ di Gilles Lellouche. Il primo è una toccante poesia, il secondo un banale film commerciale di cui non si sentiva bisogno, utile solo a Netflix che lo ha in catalogo. Pochi si aspettavano l’incantevole secondo lungometraggio della regista indiana Payal Kapadia che ha illuminato il concorso di Cannes. La regista di Mumbai è nota soprattutto per aver vinto il Golden Eye per il miglior film documentario a Cannes 2021 per ‘A Night of Knowing Nothing’; nel 2017 il suo ‘Afternoon Clouds’ era stato l’unico film indiano selezionato per il 70° Festival di Cannes. Questo ritorno merita probabilmente un grande premio. Protagoniste del film sono tre donne, infermiere in un ospedale locale un po’ malandato a Mumbai: Prabha (Kani Kusruti), Anu (Divya Prabha) e Parvaty (Chhaya Kadam). Ognuna di loro è arrivata nella grande città da piccoli paesi. Prabha, e la più giovane e vivace Anu, sono compagne di stanza e Anu, appena arrivata, sta già chiedendo alla più sobria e ragionevole Prabha di coprire la sua parte di affitto. L’anziana Parvaty, vedova, è minacciata di sfratto perché un promotore immobiliare ha acquistato il suo condominio. Il dramma si scatena quando Prabha riceve dalla Germania, dove vive suo marito che da anni l’ha dimenticata, un pacco contenente, tra le altre cose, un cuociriso lucido e costoso che sembra estraneo alla loro piccola cucina, ma soprattutto alla loro vita. Prabha sospetta chiaramente, che con questo insultante regalo, l’uomo voglia chiudere la loro storia. Per sfuggire a Mumbai, alla solitudine che regalano venti milioni di abitanti, Prabha e Anu accettano di accompagnare Parvaty in Kerala. Il film è diviso in due parti, quella della città e quella della campagna, Kapadia ha dimostrato il suo raro talento nel trovare passaggi di squisita poesia nei banali versi bianchi della vita quotidiana indiana. C’è nel film, infatti, chiaro il peso di un’indipendenza culturale non ancora raggiunta, frenata com’è da un machismo che si fa forte di una tradizione bastarda. E la luce del titolo è quella che è dentro le tre protagoniste e che loro cercano inutilmente fuori. Film splendido.

Ben più basso è il livello di un film come ‘L’amour ouf’ di Gilles Lellouche, 166 minuti distribuiti da Netflix, una brutta copia di film hollywoodiani, una storia d’amore misogina, che abbraccia l’idea di una giovane donna incapace di andar oltre il vuoto aspetto di un belloccio che fa il maledetto e che invece è solo un povero delinquente. La noia è assicurata, le emozioni bandite, la recitazione vuota, come la regia incapace di raccontare.

… e una, fuori concorso, dalla Somalia

Di ben altro spessore, fuori concorso, il primo film somalo presentato al Festival di Cannes: ‘The Village Next to Paradise’ di Mo Harawe, un emozionante ritratto di una famiglia che vive in un villaggio nel deserto somalo, persone semplici ma di un’umanità invidiabile. L’attore Ahmed Ali Farah è Mamargade, un padre single che si guadagna da vivere con numerosi lavori. Con lui vive anche sua sorella Araweelo (la brava Anab Ahmed Ibrahim), che si è rifugiata presso di lui in seguito a un’infelice disputa coniugale. E con loro vive Cigaal (il piccolo Ahmed Mohamud Saleban) il figlio di Mamargade. Ma la scuola del posto chiude per mancanza di insegnanti e, affinché il figlio non perda la possibilità di istruirsi, Mamargade lo affida a un collegio, disposto a tutto pur di riuscire a pagare la retta, finendo in carcere per aver trasportato armi a sua insaputa infilate in un carico di pecore. Un film che insieme alla storia familiare sa raccontare il dramma di un Paese troppo spesso in guerra, ma pieno di un popolo che vuole vivere finalmente in pace. Applausi.

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