laR+ La recensione

Un grido di unione chiamato ‘Disco Boy’

Stupefacente Giacomo Abbruzzese, vera rivelazione registica di un film che riesce ad avvicinare luoghi e persone lontane. Nelle sale

Franz Rogowski è Aleksej. Il film è al Lux di Massagno e all’Otello di Ascona
14 settembre 2023
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Debutta Giacomo Abbruzzese e fin da subito raggiunge vette altissime con questo ‘Disco Boy’, un grande esempio di fotografia e recitazione ai massimi livelli. Secondo film in sala ora, assieme a ‘Io, Capitano’, che abbraccia il tema dell’immigrazione, anche se diversa è la direzione intrapresa da Abbruzzese, il quale racconta le difficoltà per il giovane bielorusso Aleksej nel suo tentativo di ottenere identità e passaporto francesi, attraverso l’arruolamento presso la Legione Straniera. La vicenda prosegue di pari passo con l’approfondimento del personaggio e la progressiva scoperta della sua grande umanità, celata dietro al suo aspetto truce e minaccioso. Il suo animo mite si scontrerà con la sua necessità, facendo vacillare il suo senso di giustizia e portandolo proprio da quel lato della bilancia da cui anch’esso è in fuga, quello degli oppressori.

Un film completo ed estremamente stratificato, in cui ogni elemento è curato con attenzione e precisione. Viaggiando tra sogno e realtà in continua sovrapposizione e contrapposizione, risulta capace di intrattenere ed emozionare lo spettatore grazie a un ritmo impeccabile, espresso simbolicamente e visivamente attraverso una danse macabre moderna, che è una metafora della vita.

Attraversando il fiume

Aleksej (Franz Rogowski) viaggia con il suo amico Mikhail a bordo di un autobus di tifosi bielorussi in trasferta. Giunti al confine polacco, le guardie di confine effettuano una perquisizione ma, grazie al visto temporaneo, i due riescono a passare, diretti in realtà alla ricerca di una nuova vita in Francia. Attraversando un fiume, Mikhail perde la vita e Aleksej è costretto ad arruolarsi presso la Legione Straniera, con la promessa di ottenere una nuova identità e un passaporto francese. Intanto, in un villaggio della Nigeria, Jomo è capo e portavoce di un gruppo che lotta per l’emancipazione, il Mend, mentre la sorella Udoka vorrebbe lasciare il Paese. Entrambi possedenti il tratto caratteristico dell’eterocromia, si dividono nel loro impegno politico, che però si riduce a una piccola milizia in difesa del villaggio. Dopo aver girato un video per la lotta allo sfruttamento dei bianchi in Nigeria, Jomo rapisce dei cittadini francesi e la Legione Armata invia in risposta una squadra per il recupero, con Aleksej tra i suoi membri. Durante la missione, le strade di Jomo e Aleksej si incontrano nel peggiore dei modi, con un duello mortale.

Tornato in Francia, Aleksej è sempre più turbato dall’accaduto e affoga i dispiaceri nell’alcol, alimentando le sue allucinazioni e i suoi incubi, quindi intravede Udoka che balla sul palco del locale che è solito frequentare e viene buttato fuori nel tentativo di raggiungerla. L’immagine fuggente della donna lo perseguita e Aleksej decide di abbandonare il commando, rinunciando quindi alla nuova identità francese.

Clandestinità e dintorni

Candidatura all’Orso d’oro alla Berlinale di quest’anno e grande vittoria per la direttrice della fotografia Hélène Louvart, Orso d’argento per il miglior contributo artistico. Il film, toccante, fa dell’inquadratura e della fotografia una colonna portante, unita quanto variegata: una conoscenza profonda del parametro della luce, usato con consapevolezza in un viaggio, anche allucinogeno, tra flash da discoteca, visioni termiche, bagliori delle fiamme e pile, alla ricerca di nemici nella notte, in un continuo sbalzo tra caldo e freddo. Le scelte d’inquadratura, analogamente, sottolineano questo gioco dei contrari permeante la sceneggiatura: similmente a Snowpiercer di Bong Joon-ho, che utilizzava i profili e la direzione dei personaggi come mezzo per mostrare la perseveranza e la rinuncia, qui la relazione avviene tra lo stare di fronte e lo stare dietro, splendida soluzione per portare lo spettatore a essere sia osservatore, sia osservato.

‘Disco Boy’ ruota attorno al concetto di clandestinità, analizzandolo attraverso lo scontro che avviene tra Jomo, intento a liberare la propria nazione, e Aleksej, che invece ne cerca una nuova in cui ricominciare. La scelta di Aleksej è accompagnata da una scritta sul muro che rivela un aspetto centrale del film: parafrasando, “non si sa se un tuo connazionale è figlio di Francia per il sangue ricevuto oppure per quello versato”. Malgrando l’ironia, essa rappresenta un’identità guadagnata col sangue, uccidendo, come il colonialismo e praticamente ogni altro movimento di espansione precedente a esso, incarnato qui dalla Legione Straniera, in una chiara critica a questo vero e proprio traffico di esseri umani legittimato, cui Aleksej decide di sottrarsi, diventando un martire silenzioso.

Consigliato e raro è dunque questo racconto sull’essere un cittadino del mondo, attraverso l’incontro tra Bielorussia e Nigeria, dimostrazione del fatto che tutti siamo, in qualche modo, clandestini. Un concetto che, con un certo senso di inesorabilità, si trascina per tutta la storia umana e ci divide da ormai millenni, quando invece potrebbe e dovrebbe unirci.

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