Venezia80

E sul Lido il cinema comincia a cantare

Il capolavoro ‘Dogman’ di Luc Besson, il così così ‘Ferrari’ di Michael Mann, l'infinitamente noioso ‘El Conde’ di Pablo Larraín (horror su Pinochet)

Luc Besson, regista di ‘Dogman’
(Keystone)
31 agosto 2023
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C’è voluto un raggio di sole per riportare il cinema vero su questo splendido Lido che ospita una Mostra che evidentemente non lo ama. In Concorso è apparso, ponendosi subito come sfidante credibile al Leone d’Oro, il magnifico ‘Dogman’ di Luc Besson, interpretato da uno straordinario Caleb Landry Jones, oggi, sicuramente, il maggior attore presente sugli schermi di tutto il mondo. Il film si apre con una frase di Alphonse de Lamartine (Mâcon, 21 ottobre 1790 – Parigi, 28 febbraio 1869) poeta, scrittore, storico e politico: “Ovunque ci sia un infelice, Dio invia un cane”, e Besson stesso spiega: “La sofferenza è uno stato che accomuna tutti noi e il solo antidoto per contrastarla è l’amore. La società non ti aiuterà, ma l’amore può aiutare a guarire”. E questo ‘Dogman’ è un film sul dolore di essere vivi, un film che ha nel suo stupefacente finale la comunione di due esseri umani che comprendono il dolore dell’altro, fino a sposarlo per quella dimenticata Pietas che distingue l’essere umano dalle pietre.

Cani e umani

Nel film, Caleb Landry Jones è Douglas Munrow, un uomo con un forte handicap trovato confuso e femminilmente truccato dalla polizia alla guida di un camion stracarico di cani. Portato alla Centrale di polizia, il suo caso viene affidato a una psichiatra, Evelyn (la bravissima Jojo T. Gibbs), per decifrare il personaggio e decidere cosa farne. Tra i due nasce subito una sintonia, Douglas comprende quello che la donna nasconde – un’infanzia difficile, di violenza, un presente brutale, con un ex marito violento e minaccioso, con la felicità di una bambina da difendere. Lei, non lo interroga, gli chiede, perforando quella corazza di silenzio che l’uomo ha costruito intorno a sé. E lui le racconta la sua incredibile storia con un padre e un fratello violenti che lo condannano, bambino, a vivere nel canile dove tengono i cani per farli combattere; le racconta della madre che fugge, o del padre che gli spara perché difende una cucciolata, staccandogli un dito dalla mano e spaccandogli la spina dorsale. Gli racconta del conforto dei suoi cani, della vita costretta in carrozzina, delle tante famiglie cambiate fino alla maggior età. Ma non sono solo periodi neri, una luce per lungo tempo lo ha sostenuto, quella di una teatrante incontrata a scuola che gli ha insegnato a truccarsi, a recitare, a essere altro da sé. Fino alla scoperta che lei era grande, che era incinta, sposata, e il suo immenso dolore. E, ancora, le racconta di come fosse riuscito a lavorare in teatro cantando travestito da Piaf e Dietrich. Arrivando alla sua lotta con la criminalità organizzata che controlla il quartiere dove vive nascosto in un magazzino abbandonato, e di come con i cani sia riuscito a sconfiggerli, quelli stessi cani che avevano imparato a mantenersi rubando gioielli nelle ricche ville. Lei è turbata da come spingeva i cani anche all’omicidio, ma comprende il profondo rancore che animava quell’uomo ormai liberato dal suo passato.

C’è in questo racconto la bellezza del cinema di un ritrovato Besson, superba la fotografia, di rilievo le musiche. Resta l'amara considerazione di un’umanità estranea all’uomo, e un finale che è un atto di accusa totale verso questi esseri, noi, capaci solo di dire “Io”, e quell’io di accontentare. La recita è meravigliosa, gli applausi tutti meritati.


Keystone
Adam Driver e Michael Mann, attore e regista di ‘Ferrari’

Cinema sportivo

Meno applausi per ‘Ferrari’ di Michael Mann, ed è un peccato perché quello che il regista, grazie alla sceneggiatura di Troy Kennedy, ha tratto dal romanzo ‘Enzo Ferrari: The Man, The Cars, The Races, The Machine’ di Brock Yates Martin, è un film di buona grana, ben raccontato e recitato, capace di dare dimensioni umane vere a personaggi raccolti in un anno particolare, quel 1957 in cui la vita di Enzo Ferrari cambiò definitivamente. Diciamo subito della bella interpretazione di Adam Driver, capace di dare i giusti toni a un personaggio, Enzo Ferrari, che giunto alla soglia dei sessanta si trova a dover piangere il figlio Alfredo ‘Dino’ morto l’anno prima a soli 24 anni, a discutere con l’amante Lina Lardi il cognome da dare al loro figlio ormai 12enne, ad affrontare la moglie Laura Garello (una Penélope Cruz in gran spolvero) che oltre a scoprire l’affaire del marito, cerca di salvarlo dalla bancarotta, perché naturalmente ha il problema delle corse, e delle vittorie degli altri. Almeno fino alle vittoriose e tragiche Mille Miglia di quel fatidico 1957. Il film ha un buon ritmo e la vicenda avvince. Un bell’esempio di cinema sportivo, più che di biopic. Michael Mann ha messo un microscopio alla macchina da presa e sul vetrino c’è una leggenda che riesce a rispettare.


Keystone
Pablo Larrain, regista di ‘El Conde’

Frappé di sangue

Non convince invece, sempre in concorso, l’horror ‘El Conde’ di Pablo Larraín, un film che ritrae Augusto Pinochet, uno dei simboli del fascismo mondiale, nei panni di un vampiro che, dopo aver bevuto il sangue della Rivoluzione Francese e di altri luoghi colmi di sangue di cui nutrirsi – e dopo averne bevuto in quantità durante il suo potere in Cile –, vive nascosto in un freddo villaggio ai confini estremi del Sudamerica. Qui viene mandata in missione dalle suore una giovane esorcista per ucciderlo – finalmente, sembrerebbe – ma in realtà per impossessarsi dei suoi tesori miliardari, soldi a cui tengono ancora i suoi cinque figli. L’improbabile scontro si trasforma in ridicola burla e il film scivola nella noia di infinite ripetizioni di cuori strappati, voli vampireschi, sangue bevuto come un frappè etc. Peccato, le premesse erano migliori.

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