laR+ L’intervista

Julia Fischer, con l’Osi nel segno di Brahms

Quello di Beethoven è ‘una seconda pelle’, ma il concerto per violino e orchestra di giovedì 16 marzo al Lac la riporta agli inizi

Nella foto, Julia Fischer. Per informazioni sul concerto: www.osi.swiss
13 marzo 2023
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L’Orchestra della Svizzera italiana, più brevemente detta Osi, sta per occupare gli ambienti deputati al ballo in quel di Riazzino, attesa nell’Osi@Vanilla di martedì 14 marzo, nuova tappa del ‘be connected’ di avvicinamento al pubblico non classico. Poco dopo, giovedì 16 marzo, sempre diretta da Markus Poschner, l’orchestra tornerà in più tradizionali stanze per un altro capitolo di Osi al Lac: prima di ascoltare nuove ‘Tracce’ di Čajkovskij con la Sinfonia n. 3 detta ‘Polacca’, il Lac accoglierà la star del violino Julia Fischer nel Concerto per violino e orchestra in re maggiore op. 77 di Brahms, colmando un vuoto del quale la celebre violinista tedesca non è in alcun modo responsabile...

Il concerto di giovedì era programmato per il 2020, ed è saltato per i noti motivi. Quando guarda indietro a quei giorni cosa vede?

Il lockdown ha portato con sé brutte e belle cose. Ho sofferto come tutti l’impossibilità di poter suonare, ma devo riconoscere che l’interruzione è stata più facile da vivere per me che non per musicisti di dieci, venti anni più giovani. Io ho potuto fronteggiare quel che stava accadendo grazie a una carriera di vent’anni alle spalle; lo stop mi ha pure consentito di guardare al mio repertorio e di aggiornarlo, di esercitarmi con lo strumento. E per la prima volta nella mia vita mi sono ritrovata a non viaggiare per un anno. Pur con tutte le difficoltà, ho cercato il lato positivo.

Se le dico ‘Orchestra della Svizzera italiana’?

C’è già stata una prima assoluta con l’Osi, anche se risale a tanto tempo fa, forse vent’anni. Ero giovanissima e credo di aver suonato proprio il concerto di Brahms. È invece la mia prima assoluta con Markus Poschner, con il quale in gioventù ho avuto occasione di studiare, essendo entrambi di Monaco di Baviera, ma non di suonare. Brahms è stato uno dei primi concerti che ho suonato in tour, e l’ho suonato tante volte, con molti direttori d’orchestra. Non vedo l’ora di suonarlo a Lugano perché so che Poschner ama tanto Brahms, come molti altri direttori d’orchestra, credo per il suo essere assai sinfonico, e perché all’orchestra viene data molta importanza. Il secondo movimento, in verità, è più un concerto per oboe che per violino, visto che il tema principale è suonato dall’oboe. Pablo de Sarasate si rifiutò di eseguirlo, aborrendo l’idea di non avere la scena per sé.

Le avrei chiesto qual è il suo concerto preferito ma ha già fatto sapere che nulla è più importante per lei del Concerto per violino e orchestra di Beethoven. Non mi resta che chiederle il secondo.

Senz’altro è quello che amo di più suonare, e cioè Mendelssohn, il primo grande concerto suonato quando avevo 12 anni. Beethoven è invece quello che conosco meglio: lei potrebbe svegliarmi nel pieno della notte e chiedermi di eseguirglielo, e io potrei suonarglielo per intero. È una seconda pelle.

Con una madre pianista, la musica è entrata da subito nella sua vita. È successo in modo naturale, o ha subito pressioni?

Ho sempre voluto suonare musica, nulla mi è mai stato imposto. Ho sentito che avrei voluto diventare una musicista già quando avevo 4 anni. Nulla è mai stato in dubbio, tutto è sempre stato chiaro: ho amato lo studio, gli insegnanti che ho avuto. In uno stato d’animo di questo tipo, credo che non sia stato troppo difficile condurmi alla musica. E non ricordo di aver voluto fare nient’altro che la musica.

C’è un preciso momento, un luogo, un concerto durante o dopo il quale ha preso consapevolezza dell’arrivo del successo professionale? La volta in cui si è detta"Ok, ho fatto davvero qualcosa di buono"...

Ricordo un paio di occasioni in cui mi sono resa conto che tutto sembrava funzionare al meglio. Potrei citare la vittoria all’Eurovision Young Musicians nel 1996, che senz’altro ha aiutato. E l’invito a suonare con Lorin Maaazel e i Bayerischen Rundfunks, nel 1997, all’età di 13 anni. Quello fu un grande passo. Ricordo anche l’invito ricevuto da Christoph Eschenbach a suonare con la Chicago Symphony Orchestra negli Stati Uniti. Ecco, se mai vi fossero stati altri dubbi, quello per me fu un momento rivelatore.

Noi umani lavoriamo duro per dare forma compiuta ad almeno una abilità che ci è stata data. Non bastasse il violino, con l’orchestra lei si cimenta pure al pianoforte…

Al pianoforte, con un’orchestra, ho suonato una volta soltanto. Non potrei fare alcuna comparazione tra le due cose. Sento che sono violinista, sono senz’altro più a mio agio come tale. Il pianoforte è il mio hobby preferito, amo suonarlo. E quando suono il pinaoforte mi accorgo di tutti le altre abilità che non possiedo (ride, ndr). Le cose stanno così: non mi vedo e non potrei mai vedermi come pianista.

Nel 2011 ha fondato il Quartetto che porta il suo nome, sottolineando in più di un’occasione come quella formula sia la più stimolante e impegnativa di tutte. Anche più di un’orchestra sinfonica?

Certamente, è la dimensione più stimolante, esperienza decisamente più impegnativa che suonare con un’orchestra. L’orchestra ha un suo direttore, se ne preoccupa lui; io posso limitarmi alle cose che mi competono e non sono responsabile per quel che fanno gli altri. In un quartetto, al contrario, esistono quattro personalità che devono convivere, l’intonazione chiama attenzione massima e il suonare insieme è più trasparente. Per eseguire un crescendo, per esempio, ci si deve assicurare che esso sia suonato da ognuno dei componenti del quartetto esattamente nello stesso modo. Ecco perché l’impegno è assai più alto che in un’orchestra.

Una curiosità personale: una violinista, come sceglie il proprio strumento?

Il mio strumento è stato scelto per me. Una ventina di anni fa, un amico mi segnalò un Guadagnini a Londra, dicendomi che si poteva acquistare. Volai in Inghilterra, vidi lo strumento e capii immediatamente che avrei potuto trascorrere il resto della mia vita con lui. Possiedo anche uno strumento moderno, un Philipp Augustin che amo suonare e che è più facile da portare con me per diverse ragioni: una è che quando vado a suonare in Cina, Giappone, Taiwan, in America, non ho l’obbligo di tutte le certificazioni che impone il Guadagnini. L’altra è che è il Philipp Augustin è uno strumento di grande affidabilità.

Per finire. I musicisti classici, oggi, sono percepiti meno distanti che in passato. L’Osi ha prodotto sforzi in questo senso, portando la sua musica nelle scuole, suonando in abiti civili. Esiste una ‘magia’ per avvicinare le giovani generazioni alla Classica?

Io penso che il primo modo per capire la musica classica sia quello di suonare la musica. Il modo migliore sarebbe suonare uno strumento, e laddove non fosse possibile farlo, è bene cantare, nei cori, sperimentando cosa sia fare musica insieme. Nell’insegnamento, io cerco il più possibile di produrre occasioni di musica d’insieme, perché comunicare, sentire la musica insieme agli altri, capire quello che la persona vicina a te sta per fare da qui a un secondo, è qualcosa che andrebbe sempre sperimentato.

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