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I ‘Bros’ di Castellucci, tra obbedienza e caos

La prima europea al Lac, dal quale si esce con interrogativi aperti e stupore di fronte a un’opera che certamente non lascia indifferenti

Noi o loro? Noi e loro?
(foto: Stephan Glagla)

‘Bros’, fratelli. Le dinamiche di gruppo, il conformismo, la sottomissione cieca al potere, per fede (vedi le citazioni al libro di Geremia dell’inizio), o per paura. Lo spettacolo che Romeo Castellucci ha presentato al Lac in prima europea sabato e domenica scorsi ha messo in scena l’obbedienza assoluta. Apparentemente di un Corpo di polizia, ma lo spettatore ci veda anche quella delle masse a un idolo per esteso, o restringendo quella di un attore verso il proprio regista. Lo ha fatto con un nutrito gruppo di apparenti sconosciuti a cui è stata consegnata poco prima dello spettacolo una divisa delle forze dell’ordine e degli auricolari. Niente prove, solo consegne, ci viene detto dal regista.

Nessun tempo per pensare, quindi, solo per agire. Quello che accade in scena sarà poi il caos. Non tanto perché i non attori non sappiano cosa fare e come – anzi, a vero dire l’impressione è che siano incredibilmente precisi per essere alla prima volta di determinate azioni collettive – ma perché i gesti che attraverso le cuffie vien loro perentoriamente chiesto di effettuare, sono incalzanti e spesso senza senso. Una tematica assolutamente interessante sulla quale già all’inizio del secolo scorso la psicanalisi si concentrava (Freud con la ‘Psicologia delle masse e analisi dell’Io’, e prima ancora il sociologo e psicologo Gustave Le Bon) e poi la psicologia sociale del secondo dopoguerra con gli esperimenti di Milgram e Ash.

L’esperimento antropologico di Castellucci sembra seguire quest’onda – anche influenzato dalle vicende sociali degli ultimi anni, dai Gilet Jaunes all’omicidio di George Floyd – proponendo al pubblico la riprova, attraverso il suo ‘Bros’, di come un gruppo, una comunità, possa agire in maniera cieca e sconclusionata in virtù di cameratismo, fratellanza e fede più forti della ragione. Però. All’inizio dello spettacolo i bassi sono assordanti e spaesanti, buio in scena e fumo, due scanner imponenti ci osservano senza sosta. In questo attimo che pare durare più del dovuto in platea ci sentiamo via via più vigilati, in stato di guerra, di emergenza. Sappiamo che in scena ci saranno degli spari, il clima di incertezza è tangibile. Forse è capitato solo a chi scrive, ma durante lo spettacolo l’impressione che non solo i poliziotti sul palcoscenico, ma bensì anche il pubblico dovesse sottostare agli ordini consegnati in partenza si è fatta sempre più presente. Noi o loro? Noi e loro? Siamo fratelli, o meglio ci comportiamo come loro, stando a osservare le azioni senza reagire? E forse aderendo senza troppo questionare alle indicazioni ricevute a inizio spettacolo? Interrogativi aperti e stupore di fronte a questa prima che certamente non lascia indifferenti e che ha il pregio di portare in scena – e in platea – l’attuale condizione di obbedienza smarrita.

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