Spettacoli

Il sogno di ‘Monte Verità’ per il regista Stefan Jäger

L’attualità dell’utopia spiegate dal cineasta che attraverso il personaggio di fantasia di Hanna Leitner ha cercato di raccontare il Monte Verità

27 agosto 2021
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Dopo Piazza Grande, le sale cinematografiche: passata la prova della prima al Locarno film festival, ‘Monte Verità’ di Stefan Jäger affronta adesso la programmazione regolare. Un’occasione per parlare con il regista di questa produzione che – come scritto in occasione della proiezione in piazza – ha deluso sia dal punto di vista cinematografico sia per i contenuti: un film piatto, salvato solo in parte dalla bella fotografia e dal lavoro di ricostruzione storica (partendo anche alcune foto d’epoca) e che banalizza le complesse vicende del Monte Verità.

Il film, lo ricordiamo, segue le vicende di Hanna Leitner (Maresi Riegner), personaggio di fantasia di una giovane donna della borghesia viennese che, oppressa dal marito e dalla chiusa società dell’epoca, abbandona la famiglia per recarsi al Monte Verità dove potrà finalmente essere libera e dedicarsi alla fotografia. Qui incontra vari personaggi realmente esistiti: l’ambiguo e manipolatore terapeuta Otto Gross (Max Hubacher), la ribelle Lotte Hattemer (Hannah Herzsprung) che alla fine si toglierà la vita, più altri personaggi tra cui non poteva mancare Hermann Hesse (Joel Basman).

Stefan Jäger, quali motivi l’hanno portata a realizzare un film sul Monte Verità?

Mi ha stupito che nessun altro l’abbia fatto prima. Per me il Monte Verità è un mito, un luogo leggendario e credo valga la pena raccontarne la storia dal punto di vista contemporaneo, perché ci sono molti temi moderni come i diritti delle donne, il veganismo, convivere con la natura, l’idea di un’utopia aperta a tutti.

Un punto di vista contemporaneo che ha comunque tralasciato molti aspetti, pensiamo alla politica, della complessa esperienza del Monte Verità.

Si deve fare una scelta: raccontato tutto il periodo del Monte Verità, dal 1900 al 1920, sarebbe stato troppo per un film. Nell’anno che abbiamo scelto, il 1906, ci c’è stato Otto Gross, c’è stata Lotte Hattemer che si è tolta la vita, cosa che ci ha toccato particolarmente perché è una storia di libertà, libertà radicale ovviamente.

Spero che ci saranno altri film su altri temi, su altri periodi del Monte Verità.

Il film lascia intendere l’ambiguità di Otto Gross, ma non la approfondisce.

Non era la nostra idea: si sarebbe potuto fare un film, o una serie, sulla vita di Otto Gross, ma non ci sarebbe più stato spazio per le donne del Monte Verità, per Ida Hofmann, per Lotte Hattemer, per Isadora Duncan, tutte figure per noi molto importanti nella scrittura della sceneggiatura.

Torno sul tema del punto di vista contemporaneo: quanto è attuale la battaglia di Hanna Leitner? La realtà odierna è lontana, dalla Vienna di inizio Novecento.

Eppure Maresi, l’attrice protagonista, ha raccontato che se lei va sul set e lavora tanto le dicono “hai un figlia di tre anni come mai non stai a casa?”. Siamo qui, 120 anni dopo, a dover scegliere tra l’arte e la famiglia. Quindi sì, ci sono state dei cambiamenti, ma non sufficienti.

Per questo, a Locarno, le reazioni del pubblico femminile sono state affascinanti: molte ci hanno detto che abbiamo toccato un tema molto profondo, di cui si deve parlare.

Anche la regia, molto classica, è stata una scelta per lasciare spazio alla storia?

Ci sono tanti piani sequenza senza tagli, una di sei minuti. Il lavoro fatto con le fotografie non è “classico”; abbiamo bianco e nero, voce fuori campo, raccontiamo prima l’arrivo al Monte Verità poi torniamo indietro con dei flashback. Abbiamo lavorato anche molto sul suono, per dare alla natura qualcosa di particolare, per farla quasi toccare e annusare.

Il fatto è che oggi tutto il cinema è classico, a parte di film ‘art house’ come quelli di Yorgos Lanthimos. L’importante è che il pubblico capisca che ci abbiamo messo tanta passione, perché questa passione è più importante di una regia elaborata che faccia dire “ah lui è un intellettuale, è un genio”. Io non sono un genio, sono un narratore di storie che mi toccano.

In Ticino il film arriva con un’aria “di casa”. Nel resto della Svizzera, e all’estero, come si aspetta venga accolto?

Il Monte Verità è chiaramente conosciuto anche fuori dal TIcino, ma spero che questo film permetta non solo di scoprire la storia di questo luogo, ma anche una storia universale e attuale. Questo ha già sorpreso tante persone: a Locarno ho incontrato una cittadina statunitense che era entusiasta e si è detta convinta che un film così potrebbe funzionare anche in America. Mi piace molto l’idea che ‘Monte Verità’ faccia un giro intorno al mondo. È tutto da vedere, ovviamente, ma speriamo.

Hanna Leitner è un personaggio di fantasia. Ma c’è qualcosa di vero, nella sua storia?

Abbiamo fatto alcune ricerche sulle fotografe attive negli anni Dieci del Novecento, di cui abbiamo tenuto conto per lo stile delle sue foto. Abbiamo anche fatto delle ricerche sulla vita delle donne nella Vienna del periodo, sulla gabbia dorata che le teneva prigioniere. Ma non c’è stata una figura specifica, è più un miscuglio di varie donne. Ancora adesso di tante fotografie storiche del Monte Verità non sappiamo chi le abbia scattate: ci siamo buttati e abbiamo immaginato una donna autrice di quelle foto. Chissà.

Il personaggio di Hanna fa inoltre da guida per lo spettatore perché non sa niente del Monte Verità. Arriva, prima è scioccata, poi inizia a comprendere le idee, a percepire la forza che il Monte Verità ha su di lei. È come se dicessimo agli spettatori: non siete i soli a non aver conosciuto il Monte Verità, anche la protagonista non lo conosce. E come nella realtà anche l’attrice: non sapeva niente e adesso è molto colpita.

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