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A spasso con Bob Dylan

Fa ottant’anni lunedì 24 maggio. Ci vorrebbe qualcuno che lo ha conosciuto. Chiedi a Ugo, l’autista.

'Per favore, dì a questo signore di andare via' (Keystone)
23 maggio 2021
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[REC] Promemoria. Scrivere degli ottant’anni di Bob Dylan senza mai nominare “Il menestrello di Duluth” (questa non vale) o ‘Il menestrello del rock’ (nemmeno questa). Al massimo, Mister Tamburino, che è molto attuale, divertentissimo e più colloquiale. Oltre che geniale. Ecco, evitare anche “geniale”, che è un po’ come quando uno ha la ‘R’ moscia e gli dicono “Sai chi mi ricordi? Nino Buonocore!” (evitare anche questa, è stata già scritta su Ticino7). Evitare anche ‘all’anagrafe Robert Zimmerman’, per far vedere che conosci il cognome di Bob Dylan, che è come dire “all’anagrafe Clark Kent”. Perché dai, lo sanno tutti come si chiama Superman, all’anagrafe dei supereroi. E Bob Dylan è famoso almeno quanto Superman, anche se non vola. Forse. Perché sicuramente per qualcuno dei suoi fan Dylan può volare. Evitare anche “controcultura” e soprattutto ‘Maestro’, che ultimamente porta sfiga. Bob Dylan è più che sufficiente. O anche soltanto Dylan. Come Donovan. Che però già si faceva chiamare solo Donovan. Comunque: Dylan. Evitare anche l’espressione “Canzoni come ‘Blowin’ In The Wind’”, perché era sul canzoniere dell’oratorio insieme a ‘Symbolum ’77’, ‘Generale sopra la collina’, ‘Ad Auschwitz c’era la neve’ e sembra che conosci solo quella [STOP] 

‘Make You Feel My Love’ (anche ‘To Make You Feel My Love’) è la traccia 9 di ‘Time out of mind’, disco tre volte Grammy, miglior album folk contemporaneo, miglior performance vocale per ‘Cold Irons Bound’ e album dell’anno 1997. Prodotto da Daniel Lanois, fa parte di quei dischi di Dylan in cui le chitarre sono accordate e tutti vanno a tempo. Un giorno del 1997, quello che Billy Joel definisce “un emissario della Columbia dall’aria circospetta, come se si aspettasse di essere derubato proprio nel mio salotto”, gli porta a casa una cassetta; gli fa ascoltare quella futura traccia 9 e il pianista di Long Island accetta d’incidere il brano ancor prima che il suo autore lo faccia da sé.

‘To Make You Feel My Love’ non è l’ultima cosa inedita cantata da Billy Joel, il Bruce Springsteen ebreo, o “il Dylan di New York”, come lo ha chiamato LA Weekly. ‘To Make You Feel My Love’, ben prima della versione di Adele e della star del new coutry Garth Brooks, è idealmente l’addio di Billy Joel, che non pubblicava più – lui che disegnava splendidi quadri di vita americana, dagli operai di ‘Allentown’ ai reduci di guerra in ‘Goodnight Saigon’, fino agli italo-americani in ‘Scenes From An Italian Restaurant’ – una sola canzone inedita dal 1993. Per una convinzione, e cioè che “l’America ha un solo uomo legittimato a scrivere canzoni: Bob Dylan. Tutto il resto – incluso se stesso, evidentemente – non è indispensabile”. Canzoni come ‘Make You Feel My Love’; canzoni come ‘The Times They Are A-Changin’, cantata da Billy nel tour di Russia dell ’87 per muri che sarebbero caduti e tempi che stavano cambiando.

Tra i molti effetti provocati, il padre di tutti i cantautori e forse anche di tutte le cantautrici (per il politically correct, ‘cantautor*’) c’è evidentemente il blocco dello scrittore (i fan di Billy Joel sanno con chi prendersela) ma anche lo stimolo per tutti coloro che si ritengono o sono stati definiti discendenti di Bob Dylan, ottant’anni il 24 maggio nella immutata e quotidiana celebrazione di un mito terreno e, dal vivo, di una “esperienza mistifica” (dai commenti post-concerto a Locarno, 25 luglio 2015, in una Piazza Grande ricolma davanti all’ennesima tappa del suo Neverending Tour).

Celebration

Con l’approssimarsi del compleanno, si è scritto che a Dylan proprio non va giù che la sua carriera venga già “imbalsamata”, come detto a Paul Morley in ‘You Lose Yourself You Reappear: The Many Voices Of Bob Dylan’, libro uscito in aprile per aggiungersi alla sterminata bibliografia che lo riguarda (4mila titoli, libro più, libro meno). Vero è che la mobilitazione è comunque iniziata. Al Kaatsbaan Park di Tivoli, Stato di New York, Patty Smith – [REC] Evitare “La poetessa del rock” [STOP] – salirà sul palco in queste ore per cantarlo e recitarlo: “Scrissi un paio di poesie per Bob quand’ero più giovane”, ha annunciato Smith. “Vorrei fare qualcosa di speciale”.

Un nuovo album uscito in piena pandemia, ‘Rough and Rowdy Days’; la vendita del catalogo alla Universal Music per una cifra pari al fatturato annuale della Logitech (300 milioni di dollari); la mostra in Florida del Dylan pittore durante il lockdown, attesa in novembre al Frost Art Museum di Miami; e il nascente Bob Dylan Center di Tulsa, Oklahoma, che già ospita l’archivio del suo predecessore Woody Guthrie. Insomma, l’imbalsamazione è ancora un pensiero lontano nel tempo.

[REC] Chissà come dev’essere trovarsi di fronte a Bob Dylan ed esordire con: “Buongiorno Mister Tamburino. Come sta?”. Una volta un amico batterista fermò James Brown sotto il palco prima di un concerto in Sardegna e gli disse: “Hi James: do you feel good?” E le guardie del corpo lo guardarono male [STOP]

Come ti presento Ugo? Storico di Dylan? «Ma no, preferirei ‘appassionato dylanologo’». Che significa «passione e studio insieme, qualcosa che ha a che fare con il cuore e anche con altro». Passione che significa collezionismo discografico inerente Dylan sfrenato – «Lo definirei più ‘compulsivo’» – e tanti concerti visti – «Almeno una decina del Neverending Tour. Alcuni anche bruttissimi, ma l’ultimo all’Arcimboldi bellissimo...». L’appassionato dylanologo ha una storia di vent’anni fa, ripresa al tempo persino da Repubblica...


Ugo Buizza (per credibilità giornalistica)

Luglio 2001, Brescia Summer Festival

«Ho avuto la fortuna, o il karma, come mi disse un giorno Francesco De Gregori, di trascorrere due giorni con Bob Dylan, cominciati da quando Adolfo Galli (di D’Alessandro e Galli, promoter del festival, ndr) m’incaricò di accompagnare l’autista ufficiale all’albergo dove alloggiava Dylan, per portarlo poi in piazza Paolo VI, perché quell’autista non conosceva la strada. L’idea di vedere Dylan solo per pochi minuti mi ha fatto accettare subito l’invito. Dopo che il bodyguard gli presentò me e l’autista ufficiale, Dylan decise di allontanare l’autista, che dovette prendersi un taxi per tornare a casa, e d’incaricare me di guidare». Allontanare? Cortesemente o ‘alla Dylan’? «Beh, non proprio in malomodo, però con decisione. Disse al manager “Per favore, dì a questo signore di andare via”. Il motivo, sono sincero, non l’ho mai saputo. Magari, a pelle, quel tizio non gli stava simpatico».

In quel momento, Ugo Buizza, professionista bresciano che di mestiere non fa l’autista, esperto di musica ascoltata, scritta e parlata, in prima fila laddove suonino i songwriter e per questo motivo oggetto d’invidia locale, diventa chaffeur per un giorno (anzi, due) e prende possesso della vettura sulla quale c’è la storia della musica moderna in persona. «Tremando, portai Dylan in piazza Paolo VI, scambiando con lui due parole non di musica, chiedendogli solo come stesse, se fosse contento di essere in Italia. Giunto alle prove, pensai che la mia esperienza si fosse conclusa. E invece mi richiamarono: “Vuole che guidi tu, devi riaccompagnarlo tu”». E siccome anche ai futuri Premi Nobel a volte gli viene voglia di prendersi un cappuccino come a tutti noi mortali, «gli feci fare il giro della città, lo portai in un bar orrendo nel quale volle fermarsi a tutti i costi, fermai l’auto e con i lampeggianti accesi gli ordinai un cappuccino. E lì cominciai a chiacchierare, gli mostrai il Castello, le rovine romane, passando anche sotto casa mia e dicendogli che abitavo lì e avevo tanti dischi suoi. Lui s’interessò al periodo storico degli ascolti che lo riguardavano e il giorno dopo mi rivolle con sé».

E il giorno dopo, un autografo e altre quattro chiacchiere tra Ugo l’autista improvvisato e Bob il cantastorie in giro per le strade della Leonessa d’Italia. «Persona assolutamente educata e gentile, con un enorme carisma impossibile da non percepire, mani affusolate, unghie lunghissime. Trascorremmo il pomeriggio insieme, lo portai a sentire il concerto di Neil Young. Quando lo lasciai per l’ultima volta in albergo, mi chiese di bere qualcosa con lui, ma il manager m’impose di accompagnare il resto della band al ristorante, perché Dylan mangiava da solo. Mannaggia al manager...». Era domenica: «Il giorno dopo voleva che lo accompagnassi all’aeroporto, ma di lunedì io lavoravo e, a malincuore, fui costretto a declinare l’invito». Per assoluta coerenza con tutta questa storia, «l’amico che prese il mio posto per accompagnarlo all’aeroporto fu sostituito da Dylan a metà strada, e ci rimase malissimo». Si è mai saputo perché? «No. Forse parlò troppo di musica, non saprei. So solo che io preferii non parlare di musica, e non gli chiesi nessuna fotografia. Magari fu il restare discreto, e il parlargli come parlo con te adesso».

[REC] Per quella cosa della credibilità giornalistica, farsi spedire da Ugo Buizza una foto dell’autografo [STOP]

“To Ugo, Bob Dylan”, scritto in rosso su di un semplicissimo foglio di carta, sufficientemente grande per essere incorniciato insieme ai biglietti dei suoi concerti. «Vado fiero dell’autografo. È vero che il non avergli chiesto la foto forse fu decisivo per quei due giorni in giro per Brescia, ma un po’ l’avrei voluto un selfie con lui, anche se non erano ancora tempi di selfie. Chissà, magari avrebbe accettato. Ma ho preferito la discrezione». Pienamente ricambiata: «Lo ricordo tranquillo, flemmatico. Magari quando canta non lo capisci (ride, ndr), ma con me parlava in maniera molto chiara, con la palese intenzione di farsi capire da uno straniero…». E niente bizze o bronci da star: «A parte alcune tensioni con qualche fan inopportuno ai piedi del palco, ricordo che dopo le prove uscì dal van di sua iniziativa per andare verso la gente, sempre con un paio di bodyguard di tutto rispetto al seguito. Ecco, Neil Young fu decisamente più cattivo, alle prove nemmeno un cenno a quelli oltre le transenne…».

[REC] Ricordarsi di chiedere a Ugo Buizza una definizione di Bob Dylan da esperto di Bob Dylan, e i dischi da portare sull'isola deserta [STOP] 

«La sua importanza sta nel fatto di avere influenzato generazioni di cantautori senza essere un cantautore, ma qualcosa di diverso. E qualcosa di diverso, Dylan, lo sarà sempre. Non è inquadrabile, incasellabile, etichettabile. Detesto leggere “folk”, “canzone di protesta”. Dylan è tante cose. È spiegato nell’ultimo disco: dice “Io contengo moltitudini” (‘I Contain Multitudes’, traccia d’apertura di ‘Rough and Rowdy Days’, ndr), che è ovviamente una citazione poetica, ma è lui a contenere, effettivamente, moltitudini. Quanto ai dischi imprescindibili, ‘The Freewheelin’ Bob Dylan’, 1964, poi un salto di due anni per la svolta elettrica di ‘Blonde On Blonde’ e ‘Time Out Of Mind’. E in mezzo tutto il resto, da andare a cercarsi. E ce n’è tanto. E la cosa bella è che potremmo aspettarci tante sorprese anche oltre gli ottant’anni, finché la salute reggerà».

[REC] Ricordare a Ugo Buizza che lunedì è il compleanno di Bob Dylan [STOP]

«Sì, ma non celebriamolo troppo. Lo si farà poi. Per ora ascoltiamolo, che è sempre una festa».

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