Spettacoli

La guerra e l’antidiva (intervista a Maria Paiato)

Sarà Madre Coraggio, al Sociale il 16 e 17 ottobre. ‘Non pensavo di recitare. Il mio sogno? Un laboratorio e una radiolina, a scartavetrare vecchi mobili'.

15 ottobre 2019
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Cos’è la guerra? Altro non è “che un tipo di commercio, ma con altri mezzi” scriveva nel ’49 Bertold Brecht per la prima berlinese di ‘Madre Courage e i suoi figli’. Ambientata durante la Guerra dei Trent’anni, scritta nel ’38 dal grande drammaturgo tedesco durante l’autoinflitto esilio svedese e presentata per la prima volta a Zurigo nel ’41, l’opera narra di Anna Fierling, Madre Coraggio, vivandiera senza scrupoli al seguito degli eserciti coinvolti nel conflitto, donna affarista che si sforza di proteggere i suoi tre figli da una guerra che le frutta guadagno, ma che glieli porterà via uno ad uno, lasciandola sola con i propri affari.

Nei panni di Maria Coraggio, al Teatro Sociale mercoledì 16 e giovedì 17 ottobre alle 20.45, sarà Maria Paiato, diretta da Paolo Coletta. Lo spettacolo giunge a Bellinzona con la medesima nota di Brecht nel ’49 – “Se Madre Courage non ricava nessun insegnamento da ciò che le succede, penso che il pubblico, invece, può imparare qualcosa osservandola” – ma in una nuova versione, della quale parliamo con la grande attrice italiana.

‘Madre Coraggio, mai così attuale’, verrebbe da dire di questi tempi, non fosse che la guerra non è mai stato un evento stagionale...
In effetti le guerre sono spalmate sulla faccia della Terra dal primo momento di vita di questo pianeta. Tant’è vero che il regista Paolo Coletta, insieme a una scenografia astratta per dare un senso meno connotabile e più imperituro di quel periodo, ha voluto l’astrazione anche nei costumi. Io, per esempio, vesto più seicentesca, altri invece più anni 20; altri ancora, epoche diverse.

Posso chiederle del suo percorso di avvicinamento all’opera?
Mi ci sono avvicinata nel modo più tradizionale, quello del regista che chiama l’attore. Paolo Coletta mi ha detto: “Vorrei fare ‘Maria Coraggio’ e vorrei farla con te”, così mi sono riletta l’opera, della quale avevo memoria antica perché letta in Accademia e poi mai più. Il personaggio è nelle mie corde, è pirotecnico. Lo stavo aspettando, sapevo che prima o poi mi sarebbe capitato tra capo e collo (ride, ndr). Abbiamo affrontato le prove con pochissimo tavolino. Paolo ha voluto creare in piedi le relazioni tra gli attori, puntando a un dinamismo che è già dettato dalle dodici scene di un testo al cui interno non c’è spazio per psicologismi o momenti contemplativi. È una recitazione diretta, agganciata alla realtà, a un eloquio spontaneo, con personaggi portati su un piano non dico da cartoon, ma l’occhio guarda in quella direzione.

Tra le molte donne spietate da lei interpretate in carriera, dove si colloca Anna Fierling?
Forse tra tutte è la più spietata, perché è donna che punta dritto all’obiettivo, che nel suo caso è quello di sopravvivere e di fare soldi. Ha tre figli che ama come un animale ama i propri cuccioli, che ad un certo punto diventano grandi, ci sono, sono con lei, ma spesso sono vissuti come un peso. Li ama, ma quando li perde non s’addolora, non si strappa i capelli, anzi. Non a caso, nel momento in cui chiedono alla madre di riconoscere il figlio morto, il regista ha voluto che io guardassi il pubblico come a dire: “Vi aspettate che mi metta a piangere? No, mi farò una gran risata, non vi darò questa soddisfazione”.

Trovo sempre grande fascino in chi nella vita parte per fare una cosa e poi trova la consacrazione in una diametralmente opposta, diventando però un punto di riferimento,
come nel suo caso. È vero che recitarenon è mai stato il suo sogno?
È vero, da piccina non ho mai pensato che sarebbe stato il mio lavoro. Ho fatto la ragioniera e poi le cose sono cambiate. Grazie a Dio. Se coltivavo un sogno, era quello di lavorare nella moda. Mi piaceva, e ancora adesso mi piace, il lato solitario e laboratoriale dell’atto creativo. Ho bisogno di toccare, di stropicciare la materia, di avere un contatto. Ho una buona manualità e quel sogno di disegnare la moda si è tradotto nell’atto creativo della recitazione, dove a volte mi è anche capitato di fabbricarmi qualche costume. Però, quando immagino le mie isole deserte sulle quali rifugiarmi, mi vedo sempre in un laboratorio con una radiolina, a scartavetrare mobili vecchi, pur facendo paciughi mostruosi.

Ci sono due termini con i quali la identificano spesso. Il primo è ‘donna degli ultimi’...
Se è vero che mi hanno dato questa etichetta, allora è bellissima, mi piace molto e me la tengo stretta. Tutte le donne che ho interpretato, in effetti, camminano sull’orlo del grande gioco della vita, spesso emarginate, sopraffatte. Dalla Maria Croce di Antonio Tarantino (nello ‘Stabat Mater’ del 2018, ndr) a Maria Zanella (‘La Maria Zanella’, 2001, ndr). Anche la Medea di Pierpaolo Sepe, in fondo, è una regina rifiutata in un regno che non è più il suo. L’etichetta di ‘donna degli ultimi’ combacia, anche se ora ho in cuore una grande regina che non è per niente ultima. Ma essendo la cosa in divenire, non vi rivelerò proprio nulla.

Il secondo termine è ‘antidiva’, forse anche per la sua assenza dal gossip, dal chiacchiericcio. A proposito: antidiva si nasce o si diventa?
Forse un po’ ci si nasce, forse un po’ ci si diventa. D’altra parte, se le dico che il mio sogno più lubrico è quello di chiudermi in un laboratorio con una radiolina, lei capirà quale gioia possa darmi lo stare in mezzo alla calca e alla confusione: zero assoluto. Sono situazioni dalle quali scappo: il rumore, il ‘tirarsi’, tutti che vogliono parlare con tutti ma in realtà non vogliono parlare con nessuno. L’ho sempre detto, sono più per la musica da camera che per le sinfonie, mi piacciono i piccoli pezzi, la strumentazione misurata, non amo le grancasse. Forse anche perché sono abbastanza timida, nonostante un lavoro che mi espone. Antidiva anche perché il concetto stesso di diva, a meno che non si applichi a chi fa cose iperboliche nel cinema, a me fa un po’ ridere, soprattuto nel teatro, dove noi attori siamo i braccianti dell’arte, forze lavoro che lavorano sporco e non fanno una vita comoda. Oggi non c’è più spazio, a parer mio, per una diva in teatro.

Tra le molte donne portate in scena, ce n’è una che ama particolarmente?
Ce ne sono alcune che rappresentano svolte importanti. ‘La Maria Zanella’, il monologo del 2001 per commemorare i cinquant’anni dalla ‘rotta’ del Po, ha cambiato il mio cammino di attrice sino a quel momento. Da lì è venuta la collaborazione con Valerio Binasco, con Luca Ronconi, quella con il Teatro Due di Parma. Però sono legata anche a ‘Cara professoressa’ (Migliore Attrice agli Olimpici del Teatro 2004, ndr). Mi spiace dare risposte deludenti che sembrano stare con i piedi in due scarpe (ride, ndr), ma ogni personaggio diventa un tassello irrinunciabile nella composizione del tutto.

Vorrei concludere con gli uomini: com’è recitare in abiti maschili?
Ah, che gran divertimento Ibsen! (‘Un nemico del popolo’, ndr). Avevo già fatto una cosa da uomo in ‘Finale di partita’ con Sepe a Napoli, ma l’hanno visto in pochi. Non posso dire di essermi tolta la voglia, ci sono ancora personaggi maschili sui quali mi piacerebbe fare indagini. Uno, lo dico sempre e non me lo fa mai fare nessuno, è Riccardo III; l’altro è il monologo dell’uomo chiuso nell’armadio in ‘Primi amori, ultimi riti’ di Ian McEwan. Ecco, sarebbe bello riunirli tutti in uno spettacolo che ne passi in rassegna fragilità, potenza, cattiveria.

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