Società

La moda fa la sua rivoluzione

Intervista a Paola De Michiel sulla Fashion revolution week in Ticino, iniziativa globale per un’industria tessile sostenibile

Circular Humanity
23 aprile 2021
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La moda fa la sua rivoluzione: si tiene anche in Ticino la Fashion revolution week, iniziativa globale per una maggiore responsabilità sociale e ambientale con diversi eventi in programma sabato 24 e domenica 25 aprile. Laboratori, workshop, esposizioni, incontri online sui principali temi di questo movimento: il calendario degli appuntamenti è su www.fashionrevolution.ch; uno degli incontri, la presentazione del progetto Circular Humanity per creare piccoli ecosistemi tessili usando tessuti scartati, è posticipato al 3 maggio a causa di un imprevisto di natura familiare. Ne abbiamo parlato con la relatrice Paola De Michiel, co-responsabile di Ticino Fashion Revolution.

Paola De Michiel, perché la moda ha bisogno di una rivoluzione?

La Fashion revolution week è di un’iniziativa globale che nasce nel 2013 in seguito alla tragedia del Rana Plaza, quando un’enorme fabbrica tessile crollò a Dacca, in Bangladesh: morirono oltre mille lavoratori, soprattutto donne, e migliaia furono anche i feriti. Non è stato il primo incidente del genere, e nell’industria della moda si discuteva già di questi temi, ma il Rana Plaza è l’evento da cui è partito questo movimento che all’inizio si è mosso in maniera molto semplice, chiedendo maggiore trasparenza. La fondatrice, Orsola de Castro, chiedeva semplicemente “who made my clothes?”, chi ha fatto i miei vestiti? La domanda che veniva posta, sui social media, alle case di moda e adesso questa campagna coinvolge milioni di persone in più di cento Paesi.

Quali gli obiettivi?

Partiamo dal fatto che nel mondo sono 75 milioni le persone che lavorano nell’industria tessile, l’80 per cento delle quali sono donne. La moda è una delle industrie mondiali più inquinanti, con pesanti impatti ambientali oltre che sociali. L’obiettivo di Fashion revolution è di dare visibilità alle iniziative positive, mettere in rete gli attori coinvolti, sostenere il cambiamento dell’industria della moda. Siamo in tanti stilisti, produttori, artigiani, consumatori, sindacati, accademici… tutti noi che ci vestiamo, alla fine.

Ma parliamo di grandi case di moda o anche di prodotti economici?

I grandi marchi sono forse più sotto pressione, ma noi invitiamo a coinvolgere sui social media tutte le realtà, piccoli o grandi che siano. Purtroppo non è detto che un marchio di lusso paghi i lavoratori meglio di un marchio di ‘fast fashion’ ma a tutti dobbiamo chiedere se sanno che spesso chi produce i loro vestiti non riesce a sostenere le proprie famiglie. Si tratta di diritti umani.

Circular Humanity, di che cosa si tratta?

Questa pandemia, con i suoi lockdown, ci ha portato a chiederci con urgenza come continuare, come andare avanti. Perché senza dubbio al mondo i vestiti sono più che sufficienti, anzi possiamo proprio dire che sono troppi. Non è una tesi radicale, ma un semplice fatto: so per esperienza diretta, quando lavoravo per una grande compagnia, che l’80% della produzione veniva bruciata perché non conveniva tenerlo.

La prima cosa che dobbiamo fare è produrre meno, ma cosa facciamo con quello che è già prodotto, già realizzato?


In concreto?

Per me l’aspetto fondamentale di questa iniziativa è stato mettere la persona al centro: chi produce il vestito, chi lo indossa. Ho quindi fatto una telefonata in India, Paese al quale sono molto legata anche professionalmente, una chiacchierata con Bhaavya Goenka, una stilista anche lei parte del movimento Fashion revolution.

Abbiamo quindi deciso di unire le forze dei nostri due studi di design ma non per disegnare nuovi vestiti, perché innanzitutto il design deve risolvere problemi.

Una delle soluzioni a cui abbiamo pensato è decentralizzare: non costruire, come si fa praticamente sempre, una grande fabbrica in cui tutti devono lavorare allontanandosi dalla propria casa, dalla propria comunità, una cosa che chi conosce l’India sa quanto può essere difficile. Il progetto prevede di organizzare piccoli gruppi di 12 persone, dei ‘cluster’ che lavorano nel proprio villaggio. È una sfida, fornire i telai, discutere dei vestiti direttamente con gli artigiani, ma per me questa iniziativa è un progetto pilota, un modello per un futuro che o è sostenibile oppure non è.

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