Società

Benvenuti in Europa

L’intervista / Beppe Casales e il suo spettacolo, ‘NaziEuropa’, venerdì sera al Teatro del Gatto

23 gennaio 2019
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Assediati come siamo dalle immagini della disperazione che bussa alle porte d’Europa, dalle dichiarazioni a getto continuo di chi chiude porti, alza muri e identifica nemici, dal cinismo sottile di chi sottoscrive accordi con un non-Stato in preda al caos, costi quel che costi, e da quello vomitato minuto dopo minuto nel tossico calderone dei social da schiere di animali da tastiera, può capitare di provare un certo senso di disorientamento. Era questa l’Europa sognata nel 1989, quando il Muro crollava e migliaia di sconosciuti si riversavano nelle strade e nelle piazze per regalarsi niente di più che un abbraccio?

Questa Europa, osservata da Beppe Casales, non somiglia a quella di trent’anni fa, del suo spirito sembra aver conservato poca cosa, mentre quel “vento di cambiamento” pare aver iniziato a soffiare nella direzione opposta, verso un passato quanto mai sinistro. Dopo gli ottimi riscontri degli ultimi anni, l’attore e regista italiano è tornato a interrogarsi sul presente anche nel suo ultimo spettacolo, dal titolo eloquente, ‘NaziEuropa’, che venerdì 25 gennaio alle 20.30 andrà in scena al Teatro del Gatto di Ascona. La riflessione, legittima, è di certo provocatoria: l’Europa di oggi, che stringe accordi con la Libia dei signori della guerra e criminalizza le Ong che salvano i migranti in mare, ha qualcosa in comune con la Germania nazista? Dopotutto, la cultura deve continuare a porre quesiti scomodi.

Dunque, l’Europa di oggi e la Germania nazista: pensando al trattamento riservato ieri agli ebrei (e non solo a loro) e oggi ai migranti, le differenze ci sono?

Sotto molti punti di vista non ci sono differenze. In entrambi i casi si registra una discriminazione reale. Questa c’è su base legale, con leggi che almeno in Italia si rivelano anche anticostituzionali o passibili di revisione, oppure semplicemente discriminatorie e comunque non adatte a gestire questa situazione. E non cambia nulla sul piano del comportamento delle persone, nel senso che in tutta Europa c’è una rinascita di comportamenti apertamente ostili e razzisti; e quello che più fa inquietare è il fatto che spesso queste posizioni vengono esaltate come qualcosa di buono che finalmente le persone hanno il coraggio di esprimere. È scomparsa la vergogna della stupidità del razzismo e si inizia quasi ad essere orgogliosi di esserlo.

L’attore-regista da dove parte per trasformare queste riflessioni, sulla realtà politica e sociale del nostro tempo, in uno spettacolo di teatro?

Io sono partito dallo studio di ciò che è accaduto negli anni Trenta del secolo scorso. Di solito a scuola si studiano di più la Seconda guerra mondiale e il suo epilogo, cioè la Shoah; si studia molto bene il come si è arrivati all’Olocausto. È stato un processo neanche tanto lento, perché sono passati sei anni dalla presa del potere da parte di Hitler fino all’inizio della guerra mondiale. Ho cercato di studiare il processo che allora ha portato le persone comuni ad abituarsi alla discriminazione, per poi osservare la realtà di oggi: come ci viene descritta dai media e come la vedono gli occhi di uno che gira l’Italia più o meno tutti i giorni.

Il pretesto del suo spettacolo, leggiamo, sta in una lettera a un’ipotetica bambina. Restiamo nel perimetro del cosiddetto teatro di narrazione?
Ma soprattutto, che cosa dire a quella bambina?

Il pretesto narrativo, la cornice, è quello di scrivere una lettera a una figlia che ancora non c’è. Quanto meno l’idea era questa: io ho gli strumenti del teatro per fare qualcosa rispetto a quanto sta succedendo oggi in Europa. Se non facessi niente, credo che non me lo perdonerei, non sapendo per altro che cosa diventerà l’Europa fra un po’ di tempo. Non occorre che ci sia un regime nazista per provare vergogna e rabbia per ciò che sta accadendo. Come detto, io ho i mezzi del teatro – questa è la mia vita, questo il mio mestiere –, e con essi ho sentito di dover fare qualcosa; per non stare zitto, perché anche in Germania negli anni Trenta ha rappresentato una forma di complicità.

Le difficoltà incontrate dal mondo del teatro sono note da anni: alcune stagioni chiudono, altre assottigliano il proprio programma. Insomma, si riducono le serate e con esse la varietà espressiva di cui può essere portatore il teatro. Lei, dal suo osservatorio, che tipo di contesti e di pubblico incontra nei suoi viaggi su e giù per l’Italia (e un po’ di Svizzera)?

Trovo un pubblico vivo, ricettivo. Anche se in realtà di teatri e di stagioni teatrali ne giro pochi, proprio perché quei pochi che rimangono a fare programmazione in realtà hanno pochissimo interesse a vedere e proporre produzioni che non siano i soliti noti. Grazie a Dio, però, c’è una selva di associazioni e di persone che si muovono e si auto-organizzano per creare eventi, momenti di socialità e di cultura. È evidente che c’è molta voglia di vedere cose diverse, di incontrarsi e di parlare; per cui in Italia, dove il mercato è praticamente inesistente e i circuiti sono blindati, da anni io trovo nella capacità di organizzazione delle associazioni culturali, soprattutto della provincia, un fermento che forse tiene in piedi culturalmente questo Paese.

Come il pubblico si auto-organizza, chi fa teatro deve autoprodursi?

Sì, i miei spettacoli sono tutti autoprodotti, tranne il caso di quello precedente ‘NaziEuropa’, ‘Welcome’, per il quale feci un crowdfunding che andò molto bene; ma quello era un caso particolare, perché dovevo sostenere le spese per un viaggio. Per il resto sono autoprodotti perché oggi trovare partner è diventato molto difficile.

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