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Sanremo: Amadeus e la regola del cinque

Il direttore artistico lascia. Citando Giorgia: ‘E poi?’ Chi verrà dopo di lui, prima dello spettacolo dovrà garantire la musica

In sintesi:
  • ‘Ci vogliono cinque anni per fare una buona squadra”, disse una volta il Trap, ma forse era Nils Liedholm
  • Per il futuro serve preservare l'orchestra, che distingue Sanremo da tutti gli altri festival
E poi?
12 febbraio 2024
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“Temevo di ritrovarmi superato da un momento all’altro, di essere costretto a inseguire le tendenze, proprio io che avevo anticipato e lanciato tante mode”. Nel settembre di quasi 65 anni fa, Renato Carosone annunciava l’addio alle scene. Dopo avere creato una sua world music tra Napoli e l’Africa dell’Italia espansionista, con Elvis e i cosiddetti ‘urlatori’ già sull’uscio di casa sua, l’autore di ‘Tu vuò fà l’americano’ disse: “Volevo scendere dalla ribalta mentre ero ancora vivo”. Il pianoman sarebbe tornato molto più in là nel tempo, ma la musica non fu più la stessa.

“L’ho detto a maggio che sarebbe stato il mio ultimo Sanremo”, ricorda Amadeus nel giorno dopo di un Festival dagli introiti pubblicitari multimilionari costruiti sulla musica e non sulle lacrime altrui che tanto funzionano, se non per le lacrime prodotte da un’onesta canzone. “Mi devo davvero fermare. Non per fare l’eremita, ma per confrontarmi con altre sfide, altre scommesse”, dice il direttore artistico della gara canora sulla quale la Rai costruisce il suo palinsesto e le case discografiche il proprio. Non apriremo qui il capitolo su quando e come ci si debba ritirare, il capitolo dei morti giovani e per questo più eterni dei vivi, dell’andarsene quando si è in vetta per paura di cadere e altri temi che attingono alternativamente al coraggio o alla pavidità, alla faccia tosta o alle scelte di vita.

“Ci vogliono cinque anni per fare una buona squadra”, disse una volta il Trap, ma forse era Nils Liedholm. La squadra è quella cosa che sul campo di un qualsiasi sport collettivo tu non sai dove sono io e io non so dove sei tu, ma tu lanciami pure la palla che tanto mi arriverà. È una sorta di regola del cinque anche quella secondo la quale ci vorrebbero cinque anni per fare di una giovane promessa un Ramazzotti (Eros, cantante; per versarsene uno serve meno), una legge non scritta che definisce il tempo di maturazione di un artista, un tempo più importante della popolarità e del cantare bene, perché cantare bene è solo una parte dell’essere artista. A cinque anni dal suo primo Festival, Amadeus lascia la manifestazione dopo la sua edizione musicalmente più bella. “Niente sarà mai più come prima”, diceva Marco Mengoni il 6 febbraio scorso quando tutto è cominciato. Così sarà, come per ogni festa riuscita bene, per ogni torta uscita bene, per ogni storia d’amore finita bene o male. Tra le voci sui successori di Ama, nei bar di via Matteotti gira anche quella su Fiorella Mannoia, pieni poteri dati dalla Rai a una donna di musica.

Per cinque anni Amadeus è stato un Baudo senza essere Baudo, aprendo (con meno protagonismo) alla nuova musica – quella che, piaccia oppure no, ascoltano i nostri/vostri figli – così come Baudo (altri tempi) aprì il tempio della canzonetta al jazz, al demenziale, al teatro canzone e al miglior ‘commerciale’. Chiunque arriverà dopo Amadeus avrà un compito: garantire che si possa sempre andare a Sanremo per parlare e scrivere di musica e non di casi umani; garantire la sopravvivenza dell’orchestra, che distingue Sanremo da tutti gli altri festival; garantire quel patrimonio inestimabile che è il canzoniere italiano dal quale la serata delle cover attinge, non meno ricco dell’American songbook. Il dopo-Amadeus è importante anche perché un giorno verrà il Festival dell’intelligenza artificiale che già produce ritornelli infallibili (il ‘già sentito’ di cui parlava Morricone, che rende un brano realmente ‘popolare’). E quando il Festival dell’intelligenza artificiale arriverà, Geolier che canta in napoletano (da quando è un problema cantare in napoletano?) sarà davvero l’ultimo dei mali.

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