laR+ Sogno o son festival

Il Festival di Rapallo

Inizia questa sera. Che piaccia oppure no, Sanremo è cambiato. Non ora e nemmeno ieri; comunque, mai quanto quest’anno

Corso Matteotti, street art
(J.Sale.Art/Foto laRegione)
7 febbraio 2023
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"Cosa sarà che ti spinge a domare una donna bassina perduta"? Come si spiega "la bottiglia che ti ubriaca anche se non l’hai bevuta"? E anche: "Cosa sarà che ti fa comprare di tutto anche se è di niente che hai bisogno"? Due particolari colpiscono di questa canzone, che com’è prevedibile s’intitola ‘Cosa sarà’: uno è che nel 1979 Lucio Dalla, su musica di Ron, rispettava l’intransitività di "aver bisogno", al contrario di quel che facciamo in Ticino ("Hai bisogno una mano?"; "Hai bisogno un testo?"; "Hai bisogno una canzone?"); l’altro è che quella composizione dalle liriche esistenzialiste – lato B di ‘Ma come fanno i marinai’, i Dalla e De Gregori del 1979 che vennero accusati dai nostalgici della sinistra di divertirsi troppo (anche la sinistra del 1979 era nostalgica) – racchiude un po’ il senso di tutte quelle cose che facciamo senza sapere esattamente perché, le cose che potremmo anche non fare e che continuiamo a fare, i posti nei quali non vorremmo più tornare e poi ci torniamo, eventi che giuri che è l’ultima volta e invece sei di nuovo lì. La domanda, in soldoni, è: perché mai si dovrebbe tornare a Sanremo? O meglio: perché si sente ogni anno un irrefrenabile desiderio di tornarvi e, al tempo stesso, si preferirebbe piuttosto morire d’inedia?

Musicologi, sociologi, psicanalisti, psichiatri, scienziati, gossippari s’interrogano sulla questione sin dal lontano 1951. Potrebbe trattarsi di ‘imprinting’, "un particolare tipo di apprendimento per esposizione, presente in forme e gradi diversi in tutti i vertebrati. Serve a fissare una memoria stabile delle caratteristiche visive degli individui da cui si verrà allevati" (Wikifestival). Ad alcuni di noi, il Festival di Sanremo ha fatto un po’ da tata, ma ora dobbiamo crescere. Nell’immutabilità della sua formula – un tizio sale sul palco, canta e poi se ne va, senza tante menate, ed è bello così – Sanremo è cambiato di molto negli ultimi quattro anni. Prima che ad Amadeus e alla sua predilezione per il tunz-tunz (meglio se quello tra gli Ottanta e i Novanta), il cambiamento si deve all’insospettabile Claudio Baglioni, che a partire dal 2018 ha sdoganato un’ampia rappresentanza del mondo rap e trap come mai nessuno prima di lui, in un luogo – tutto sommato, ma con varie e a volte indimenticabili eccezioni (gli Avion Travel nel Duemila, per esempio) – deputato alla conservazione dello statu quo musicale del Paese.

Che il rap e i suoi derivati fossero in giro già prima del 2018 è cosa nota anche agli amanti di Casadei e ai collezionisti di Miles Davis. È chiaro anche che il mercato discografico rap e filo-rap sia l’unico degno di chiamarsi mercato, al netto delle magre percentuali secondo le quali, per pagarsi l’affitto con le canzoni, solo con YouTube servirebbero 2,5 milioni di visualizzazioni al mese, probabilità che portano a concetti come ‘jackpot’, ‘l’uomo della mia vita’ e ‘domani smetto’.

Ora che il rap è ovunque, ora che Jovanotti che sputa sul microfono in ‘Vasco’ non è più un evento isolato (cadeva nell’anno 1989; cadeva anche nel senso che nel 1989 Jovanotti cadde sul palco), il Festival della canzone italiana di Sanremo potrebbe pure cambiare denominazione in ‘Festival del rap italiano di Sanremo’. Stanti le moderne necessità di sintesi, e il pericolo costante che corre il boomer di annoiare le Generazioni X, Y e Z con mezza parola di troppo, perché non sintetizzare tutto in ‘Festival del rap italiano’? Si potrebbe addirittura spostare la location. A Rapallo. Il Festival di Rapallo, che si capisce che è il festival del Rap, non serve cercare in Rete. Resterebbe solo di rinominare l’Auditorium delle Clarisse, il teatro di Rapallo, in ‘Teatro Ariston delle Clarisse’ e il marketing è servito. Anzi, ‘Teatro Ariston’ senza Clarisse. Meglio ancora: ‘Ariston’ e basta, che ‘Teatro Ariston’ sono sei lettere e uno spazio, del tutto superflui. Nemmeno v’immaginate quante cose si possono dire oggi in sei lettere e uno spazio.


laRegione
Maestro, porti pazienza (Sanremo, Corso Matteotti)

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