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Breve storia della ‘blackface’

Dai ‘minstrel show’ statunitensi al folklore europeo, le origini di un fenomeno che ha profonde radici razziste

Lo Zwarte Piet nederlandese, una tradizione europea influenzata dalle rappresentazioni stereotipate statunitensi
(Keystone)
24 febbraio 2024
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Le polemiche nostrane sulla pratica della ‘blackface’, il dipingersi la faccia di nero per rappresentare un personaggio dalla pelle scura, a prima vista possono sembrare una qualche specie esotica che, strappata dal proprio ambiente naturale, mal si adatta al nuovo contesto in cui si trova. La blackface non sarebbe insomma un problema in Europa, e tantomeno in Svizzera, dove il significato storico e culturale del dipingersi il viso di nero non avrebbe nulla a che fare con il razzismo, come forse avviene negli Stati Uniti; anzi, qui da noi sarebbe un rispettoso omaggio alle culture e ai popoli africani.

In realtà, se in questa storia c’è una specie esotica arrivata dagli Stati Uniti è proprio questo atteggiamento di innocenza: parlare di atto di celebrazione e di ammirazione (oppure, a seconda dei contesti, di imitazione e di verosimiglianza) privo di ogni intenzione razzista è la classica giustificazione dei personaggi pubblici statunitensi quando dagli archivi emerge qualche testimonianza di blackface. Se il personaggio in questione è attento – è il caso ad esempio del primo ministro canadese Justin Trudeau –, a questa giustificazione si aggiunge un’ammissione di ignoranza legata al fatto di non aver mai dovuto fare i conti con le tante forme di discriminazione razziale. Se il personaggio pubblico è meno attento, o non può contare sulla consulenza di persone esperte, se ne esce con frasi infelici tipo “non posso stare dietro a tutti quelli che offendo perché sono una persona normale” (dando per scontato che le persone offese in questione non siano normali – e sì, una conduttrice televisiva ha davvero fatto una dichiarazione simile, pochi anni fa).

Quanto alla pratica di dipingersi il viso di nero per raffigurare persone o personaggi dalla pelle scura, è vero che l’attuale dibattito sulla blackface è legato all’eredità dei cosiddetti “minstrel show”, diffusi negli Stati Uniti e basati su rappresentazioni stereotipate e razziste; tuttavia la popolarità di questa forma di spettacolo non si è limitata agli Stati Uniti e le origini del fenomeno sono europee, non americane.

Nero su bianco, bianco su nero

Diamo per scontate l’innocenza e la buona fede: il viso annerito – con un turacciolo bruciacchiato o altre tinte – è effettivamente una questione di verosimiglianza e di ammirazione.

Una prima domanda che ci si dovrebbe porre è quanto sia autentica quella verosimiglianza e quanto invece non sia legata a stereotipi, riducendo la diversità e la complessità. Per il ‘West Side Story’ del 1961, diretto da Jerome Robbins e Robert Wise, hanno scurito la carnagione dei personaggi portoricani: non solo Maria e Bernardo (interpretati da Natalie Wood e George Chakiris), ma anche Anita, interpretata dall’attrice portoricana Rita Moreno. Il colore naturale della sua pelle non corrispondeva infatti allo stereotipo e andava quindi corretto, sacrificando la diversità dei veri abitanti di Portorico. Si racconta che quando l’attrice – tra le poche ad aver conseguito un EGOT, cioè a vincere un Emmy, un Grammy, un Oscar e un Tony – fece presente l’assurdità della cosa, il truccatore la liquidò con un “non sarà mica razzista?”.

Vi sono numerosi studi sugli effetti di queste rappresentazioni stereotipate nel perpetuare pregiudizi e discriminazione e nel ridurre l’autostima e il senso di identità di persone appartenenti a minoranze.

Un altro elemento importante e spesso trascurato riguarda l’asimmetria di questa pratica: mentre la blackface è, storicamente, una pratica molto diffusa, i casi di ‘whiteface’ – ovvero di attori dalla pelle scura che si dipingono il volto di bianco per questioni teatrali – sono non solo estremamente rari ma sempre giudicati sbagliati, contronatura. Così, quando nella prima metà dell’Ottocento gli attori afroamericani James Hewlett e Ira Aldridge interpretarono – eventualmente sbiancandosi il viso – personaggi quali Riccardo III o Re Lear, si parlò di “palese incongruità”, cosa che nessuno fece di fronte ai tanti Otello scuriti tramite blackface. Questa asimmetria ha senso solo assumendo una gerarchia basata sul colore della pelle, una delle idee alla base dei popoli primitivi e del ruolo salvifico dei civilizzatori europei: un bianco può “abbassarsi” diventando nero – e anzi si apprezza la sua abilità di attore – ma un nero non potrà mai “elevarsi” diventando bianco, la sua vera natura prevarrà sempre.

Il successo internazionale

Si è già accennato ai minstrel show, questi spettacoli itineranti la cui popolarità, durante l’Ottocento, se da una parte ha contribuito alla diffusione della musica afroamericana, dall’altra ha rinforzato stereotipi come quello del nero pigro, torno e superstizioso. Gli interpreti dei minstrel show avevano non solo il volto colorato di nero, ma spesso anche due grandi labbra rosse dipinte intorno alla bocca. Il più popolare di questi personaggi fu Jim Crow: la sua notorietà portò a chiamare “Leggi Jim Crow” tutte le norme – rimaste in vigore fino agli anni Sessanta del Novecento – che prevedevano la segregazione razziale.

La popolarità dei minstrel show, e in generale delle rappresentazioni caricaturali di minoranze a fini comici o drammatici, non significa che nessuno protestasse: vi furono anzi importanti movimenti di protesta e boicottaggio che coinvolsero non solo le comunità afroamericane, ma anche quelle irlandese ed ebraica, ottenendo in alcuni casi alcuni successi. Da notare che già all’epoca le rivendicazioni di queste comunità venivano respinte dalla maggioranza richiamandosi alla libertà artistica e alla libertà di espressione.

I minstrel show sono anche stati un prodotto culturale di esportazione. Quando gli Stati Uniti imposero, con la forza della propria marina militare, l’apertura commerciale del Giappone a metà Ottocento, portarono con sé anche un “Ethiopian Entertainment”, ovvero un minstrel show con tanto di blackface che prese subito piede. Ironia della sorte, nello stesso periodo i minstrel show negli Stati Uniti iniziavano a includere anche caricature razziste di persone asiatiche. Anche in Europa i minstrel show godettero di una certa popolarità: la BBC ebbe nel proprio palinsesto il ‘The Black and White Minstrel Show’, con tanto di blackface, fino al 1978. Anche nei Paesi Bassi i minstrel show entrarono nel repertorio teatrale, influenzando la rappresentazione di Zwarte Piet (Pietro il nero), personaggio che accompagna San Nicola e il cui compito è punire i bambini cattivi (una figura simile, Père fouettard o Schmutzli, esiste anche nel folklore svizzero).

È quindi possibile ricondurre ai minstrel show statunitense anche la tradizione della blackface italiana, come Totò che nel 1962 si traveste da improbabile ambasciatore del Catonga, ricorrendo non solo alla blackface ma anche a un anello al naso.

Le radici europee della blackface

Quello dei minstrel show in Europa è però, in un certo senso, un ritorno e non solo perché il nome è un esplicito rimando alla tradizione medievale dei menestrelli.

Alla base dei minstrel show statunitensi vi sarebbero infatti certe forme di teatro popolare europeo, in particolare britannico, con rappresentazioni caricaturali di varie classi sociali, soprattutto delle più povere (il che richiama alla mente un aforisma attribuito allo scrittore francese Nicolas Chamfort: “Les pauvres sont les nègres de l’Europe”).

Ma tra le fonti di ispirazioni per i minstrel show possiamo rintracciare un’altra tradizione europea, legata alle conquiste in Africa: la pubblica esposizione di persone dalla pelle nera, perlopiù schiavi catturati, i cui corpi diventavano oggetti curiosi, meraviglie da guardare e mostrare. Inizialmente diffusa, quale segno di prestigio sociale, esclusivamente tra l’aristocrazia, questa pratica è successivamente diventata popolare con la diffusione dei cosiddetti “zoo umani”. Nel 1896, nell’ambito della seconda Esposizione nazionale svizzera, venne allestito un “village noir” che ospitò 200 persone provenienti dal Senegal.

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