Per intero, Banco del Mutuo Soccorso. La storica band del prog ha concluso la sua trilogia. Il 29 marzo alle 11, Meet&Greet al Lac. Parla Vittorio Nocenzi
Parliamo con Vittorio Nocenzi quando ha appena lasciato Seriate per Roma. Da lì è ripartito per tornare a nord in direzione Busto Arsizio, dove il Banco del Mutuo Soccorso, o solo Banco, è atteso stasera da un altro concerto. Domani alle 11, presentata da un Manuele Bertoli versione tastierista dei Green Onions, la band storica del progressive rock sarà al Lac per il Meet&Greet organizzato da Lac e Tondo Music. Parlerà di ‘Storie invisibili’, capitolo finale della trilogia dedicata all’esistenza umana. Nocenzi firma il disco con il figlio Michelangelo dal punto di vista compositivo e con Paolo Logli da quello delle liriche. Con una tastiera, al Lac accenderà flash sull’album.
La trilogia nasce nel 2015, annus horribilis del Banco: la morte del frontman Francesco Di Giacomo, l’emorragia cerebrale che colpisce Nocenzi. «Abbiamo reagito al destino progettando tre album legati da una narrazione comune. L’idea più semplice ci ha portati all’esistenza umana», spiega Vittorio. Così è nato ‘Transiberiana’ (2019), tremila chilometri da Mosca al Mar del Giappone come metafora del viaggio della vita; nel 2022 ‘Orlando le forme dell’amore’, per celebrare il sentimento più importante. Da poco c’è ‘Storie invisibili’, nel quale insieme a Nocenzi (organo, synth e voce) canta Tony D’Alessio (voce solista) e suonano Michelangelo Nocenzi (piano e tastiere), Filippo Marcheggiani (chitarre e voce), Marco Capozi (basso) e Dario Esposito (batteria).
Vittorio Nocenzi: prima che dalle storie, cominciamo dagli invisibili?
La trilogia chiamava la pagina più importante. Il libro dell’umanità non è stato scritto né da Napoleone né da Hitler né da Giulio Cesare, ma da donne e uomini comuni che con la loro vita hanno riempito ogni giorno le pagine di sogni, speranze, difficoltà, coraggio, stupore. Sono loro le storie invisibili che abbiamo sentito imprescindibili per completare il racconto.
‘Allons enfants, allons enfants! / Andiamo tutti a Parigi adesso!’. Il disco si apre con il grido di ‘Studenti’, un ponte tra il Sessantotto e i giorni nostri. Subito dopo si alza la voce del ‘Mietitore‘, altre proteste di piazza, quelle del popolo dei trattori...
Volevamo che queste storie invisibili avessero un elemento comune: essere racconti della contemporaneità. Gli studenti non potevano mancare per come sono tornati a occupare le università, vedendo compromesso il rapporto di fiducia con la politica, vivendo la paura del futuro. ‘Il mietitore’ è la giusta visibilità data al mondo degli agricoltori, che hanno salvato la nostra specie dall’estinzione eppure oggi sono costretti a scendere in campo per difendere il proprio lavoro, perché quella che guadagna è la filiera subito sopra di loro. Come gli studenti, sono persone che avrebbero diritto a una centralità.
Cos’è successo da Parigi a oggi? Non siamo scesi in piazza abbastanza?
Il problema è che la nostra generazione credeva che quella lotta sarebbe stata sufficiente, e invece la libertà e la qualità della vita vanno difese ogni giorno. Non basta combattere una volta, bisogna farlo di continuo, tenendo presente che senza la conoscenza non siamo liberi davvero. La conoscenza non è la laurea in Wikipedia, la libertà non è celarsi dietro un nickname. La dignità sociale è fatta di competenze, del rispetto per il prossimo. Per questo motivo ritengo necessario che la musica sia ancora un veicolo di messaggi sociali ed esistenziali. Per essere valido, il lavoro artistico deve avere sempre una grande tensione etica, non solo estetica.
Altrimenti diventiamo ‘prezzati’, merce da supermercato, dite in ‘Non sono pazzo’...
La tendenza generale di questa globalizzazione pazza e miope è che contiamo soltanto come conti correnti ed è una bugia: noi contiamo soprattutto come esseri pensanti dotati di coscienza critica, di opinione personale, di sogni e ideali da inseguire.
‘Non sono pazzo’ ha qualcosa di Francesco Di Giacomo: pare di vederlo cantare ‘per cambiare il mondo non basta l’Auto-tune’…
È vero, Francesco avrebbe amato questo disco. È pieno di storie individuali che diventano universali, contemporanee. Alcune si rifanno a momenti storici importanti, come ‘L’ultimo moro dell’Alhambra’, dove abbiamo immaginato uno degli arabi cacciati dal Sud della Spagna durante la riconquista spagnola cristiana che si domanda perché venga considerato un estraneo, lui che in quella terra ci era nato e così suo padre, una terra in cui gli arabi avevano vissuto per ottocento anni. Il passo dalla Spagna alla Striscia di Gaza è un attimo. C’è il conflitto russo-ucraino in ‘Casa blu’, con due melodie parallele, una per la voce di Tony, che è la voce dell’ucraino invaso, e un’altra filtrata, resa consapevolmente sgradevole, che è la voce dei cronisti che commentano le barbarie come qualsiasi altra notizia televisiva. ‘Storie invisibili’ è un lavoro che un tempo avrebbero definito ‘engagée’, impegnato, nel senso dell’impegno di fare della musica ciò che il Banco ha sempre fatto, uno strumento di espressione, poetico ma anche di testimonianza del nostro tempo, che è poi la funzione dell’arte.
Vorrei dire dell’apertura strumentale di una bellissima ‘Spiegami il cielo’, tipica di voi che siete ‘Nati liberi’, titolo della tua autobiografia, ma anche del testo: è buffo constatare come nemmeno gli alieni, a noi umani, ci trovino interessanti…
‘Spiegami il cielo’ dà voce alle persone che hanno avuto ‘incontri ravvicinati del terzo tipo’ e non ne parlano perché hanno il timore di essere presi per matti, quando invece i matti siamo noi se pensiamo che in questo universo sterminato che contiene miliardi di pianeti la vita stia soltanto su questa briciola impalpabile e inconsistente chiamata Terra.
Da questo disco usciamo un po’ con le ossa rotte. Benvenuta la speranza in ‘Solo meraviglia’, dedicata ai tuoi nipoti…
Gli occhi dei bambini sono solo meraviglia. Le sorprese che il mondo rivela alle nuove vite le vediamo nei loro occhi. Volevo scrivere una canzone da dedicare ai fan del Banco affetti da quella che io grossolanamente chiamo ‘nonnite’, ma che è una malattia meravigliosa. Noi uomini siamo come i contadini che ogni anno, dopo l’ennesima delusione data dal raccolto, si dicono che l’anno successivo cambieranno gli anticrittogamici, faranno una potatura diversa, daranno più acqua e concime, convinti che andrà meglio. Siamo agricoltori impenitenti, perché diventare padre è una gioia evidente, ma diventare nonni è devastante: sei a un certo punto della vita in cui hai più strada alle spalle che davanti, e la nascita di un nipotino è un riaffermare la meraviglia del creato.
Le ‘Storie invisibili’ si chiudono con ‘Capo Horn’, storia di un marinaio e delle assenze che lo allontanano dalla sua donna, ma anche storia dell’umana urgenza di cercare. Oltre che contadino, ti senti anche marinaio?
Certamente, in ogni senso devo continuare a cercare. Tutti dobbiamo farlo, perché è il senso dell’esistenza. Dobbiamo cercare di migliorarci, di fare cose utili, sperimentare, verificare possibilità che non abbiamo ancora esplorato. Dobbiamo farlo per noi e soprattutto per gli altri.