laR+ L’intervista

Valentina Magaletti, senti che bel rumore

L’aver suonato la batteria per il batterista dei Radiohead viene dopo l’essere di ispirazione per altre batteriste. Il 29 marzo a Chiasso Means Noise

Da Londra a Chiasso
( Il programma completo della rassegna è su www.spaziolampo.ch/CMN)
24 marzo 2025
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Chiasso Means Noise, Chiasso significa rumore. Il festival di musica elettronica e sperimentale che da due anni a questa parte si annuncia nel giorno della prova delle sirene è alla ricerca dei diversi significati del rumore. Le risposte arriveranno dal 27 al 29 marzo al Magazzino 2 di via Stand a Chiasso con i nomi più interessanti della scena contemporanea. Spiccano quelli di Tapiwa Svosve (Premio Svizzero di musica 2024) feat. Richard Scott & Xaver Rüegg, di venerdì 28, e quello di Valentina Magaletti, sabato 29, da Bari a Londra per restarvi e costruirsi la più limpida delle carriere come “batterista-compositrice e polistrumentista con approccio inventivo a batteria e percussioni” (dal sito ufficiale, per dirla in modo completo). Magaletti è legata a importanti progetti musicali (Tomaga, Vanishing Twin, Moin, Holy Tongue) e collaborazioni illustri: Nicolas Jaar, Thurston Moore (Sonic Youth) e Philip Selway (Radiohead), ‘nomoni’ di cui non si vanta affatto. Anzi.

Bangles, Bananarama e Cure. È così che tutto è cominciato…

Sì, i videoclip di fine anni Ottanta hanno influito molto sul mio amore per la batteria, un amore a prima vista. Ancora oggi nutro grande rispetto per i Cure.

Quando in tv apparve Sheila E. con Prince la reazione del maschio medio fu “caspita, una percussionista donna!”, quasi fosse…

… il circo…

Sì, qualcosa non previsto dalla storia. Succede anche con te?

Sì, mi trovo spesso a parlare di sessismo legato alla batteria e non riesco a capacitarmene. Forse perché l’atto del picchiare è associato alla natura maschile così come la violenza, ma sia il picchiare che la violenza sono concetti che io non associo alla batteria e dunque non ha alcun senso per me che la batteria sia concepita come uno strumento maschile. Trovo tutto questo molto limitante per lo strumento stesso e incredibilmente noioso il dover mostrare la violenza, la velocità, il gravity blast (per gli amanti della batteria: piatto/grancassa/rullante all’unisono in battere, e rullante in levare. Per i non amanti: un gran baccano, ndr). Ci sono tanti altri modi di concepire la batteria: come strumento sinfonico, strutturale, è straziante vederlo utilizzato in modo così limitante. Ed è umiliante il sessismo del non venire interpellata per questioni tecniche quando mi trovo sopra un palco, perché se vedono una donna alla batteria e ci sono colleghi uomini, gli uomini preferiscono parlare tra simili. Magari in maniera più lieve, ma continuo a vivere queste cose anche se siamo nel 2025.

La migliore risposta al sessismo paiono le collaborazioni, l’attività discografica frenetica. O forse la risposta è la batteria di porcellana di Yves Chaudouët?

Sì, la ‘Batterie fragile’ è stato un progetto molto stimolante. Avere la possibilità di incidere un disco suonando sopra uno dei materiali più fragili è stata un’occasione a suo modo femminista per portare a guardare la batteria da un’altra angolazione. Yves ha cotto un intero drum kit di porcellana dandomi la possibilità di esprimere concettualmente quel che vado spiegando regolarmente ai giornalisti.

Dove viene custodito lo strumento?

Yves ne ha cotti due. Uno è stato acquisito dal Museo delle Belle arti di Tours e un altro dovrebbe trovarsi nel suo studio di Limoges. Ogni qualvolta decidiamo di fare un concerto con quello strumento ci sono problemi logistici seri, i rischi sono sempre enormi.

Quale sarebbe la tua musica senza Londra?

Non saprei. Sono innamorata di Londra, sin da quando ci sono venuta con la scuola. L’ho sempre trovata stimolante dal profilo artistico e musicale, e ancora lo è. Negli ultimi dieci anni sono state aperte molte venue d’avanguardia, solo un paio di settimane fa uno dei nostri amici, Daniel Blumberg, ha dedicato l’Oscar (alla migliore colonna sonora per ‘The Brutalist’, ndr) al Cafe Oto, luogo che deve moltissimo alla città e viceversa. Sono italiana d’origine, mi capita di tornare in Italia per le festività e rimango sempre impressionata dall’aridità culturale che si respira soprattutto in ambiti di musica, benché vi siano grandi musicisti e operatori culturali. Ho difficoltà a trovare in Italia qualcosa che sia davvero fresco e non legato all’idea di successo che hanno i ragazzini.

Anche essere la batterista del batterista dei Radiohead è una conferma?

Sì, ma a prescindere dal fatto che Philip Selway lavori per una band molto famosa. È una soddisfazione da ogni punto di vista. Sarebbe stato lo stesso se qualche altro batterista mi avesse chiesto la stessa cosa. Non posso negare di essere stata contenta di lavorare con un nome così grosso, ma quel tipo di fama non m’interessa più di tanto. Quello che m’interessa è lo sforzo giornaliero, l’affetto comunitario, il condividere una scena, una comunità che si muove a favore di altri, l’essere vettore per l’ispirazione di altre musiciste. Tutto questo m’interessa molto di più dell’aver suonato per il batterista dei Radiohead (nel suo terzo album solista, ‘Strange Dance’, del 2023, ndr).

Dalle pagine di ‘Batterie Magazine’: ‘In un mondo dominato dalla ricerca del beat giusto, del groove perfetto che fa muovere le spalle, Magaletti ha scelto un approccio differente, incentrato sulla ricerca sonora’. Come si muove la tua ricerca?

La ricerca è costante e avviene attraverso il dialogo, che si mette in moto ogniqualvolta ci si trova davanti ad altri musicisti, che si tratti di una persona sola o di un’orchestra intera. Attraverso l’ermeneutica musicale s’impara a gridare ma anche a stare zitti, a essere rispettosi dell’ascolto. Esistono criteri e dinamiche che alimentano la voglia di sperimentare. Il linguaggio della musica non ha limiti per me.

Hai parlato di gridare, quale migliore verbo per parlare di ‘Chiasso Means Noise’: qual è la tua definizione di rumore?

Ne ho parlato tempo fa con altri grandi musicisti ad Unsound in Polonia (festival che si svolge a Cracovia, ndr). È penalizzato, spesso ha un’accezione negativa, di disruption (disturbo, interruzione, ndr), quando invece può servire a cambiare le cose in meglio, a distrarre da ciò che non funziona. La mia idea di rumore è costruttiva, non necessariamente fastidiosa e fastidiante. Soprattutto in quanto batterista, hai sempre a che fare col rumore, da quando sei piccola e il vicino si lamenta. A volte sono state secchiate di fango, altre volte gavettoni.