Il ricordo

Rob Reiner, una vita di successi tra sorrisi e incubi

Attore, regista e produttore mai legato a un solo modello narrativo. La sensibilità nel dirigere gli attori gli valse la fiducia di tre generazioni

(Wikipedia)
15 dicembre 2025
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La scena del delitto è nota: una villa elegante nel cuore della Città degli angeli, distretto di Brentwood, a ovest di Hollywood, vicino all'ultima dimora di Marilyn Monroe. Qui è finita, a coltellate domenica notte, la vita di Rob Reiner e di sua moglie Michele Singer, una coppia perfetta circondata dalla stima dei produttori e dall'affetto di tanta gente del cinema. Il dramma sembra uscito dalle pagine di Stephen King, l'autore più amato da Reiner che due volte lo avrebbe portato al cinema con la benedizione dello scrittore di cui divenne amico, tanto da permettergli di usare il nome di un luogo mitico dei suoi romanzi, Castle Rock, per la sua casa di produzione subito legata al successo di ‘Misery non deve morire’ nel 1990. A quella data Robert ‘Rob’ Reiner, nato nel Bronx il 6 marzo 1947, era già una star di Hollywood, prima come attore, poi come regista e produttore.

Figlio di due stelle del teatro e del cinema come Carl Reiner e Estelle Lebost, erede della tradizione ebraica che mischia commedia e tragedia, il giovane Reiner scopre lo spettacolo fin da giovanissimo. Lo incoraggia proprio il padre, trasferitosi a Los Angeles quando il ragazzo ha 13 anni, spedendolo alla Beverly Hills High School e poi procurandogli i primi ruoli in tv. Caratterista popolare fin dal 1971 quando la serie ‘Arcibaldo’ spopola sulla CBS e il personaggio di Stivic gli vale ben due Emmy Awards come migliore non protagonista, Rob Reiner non smetterà mai di divertirsi a recitare (proprio come il padre) nonostante la crescente affermazione dietro la macchina da presa. Con la sua testa d'uovo precocemente abbandonata dai capelli e poi incorniciata dalla barba, lo ricordiamo in ‘Insonnia d'amore’ di Nora Ephron (un'amica cui deve il film della vita), ‘Pallottole su Broadway’ di Woody Allen, ‘EdTV’ di Ron Howard o ‘The Wolf of Wall Street’ di Martin Scorsese.

Il suo cuore artistico sta a New York, ma la scena del successo è invece Hollywood dove Reiner si afferma come regista alla metà degli anni 80. Nel 1984 convince una piccola casa di produzione, la Embassy, a farlo esordire dietro la macchina da presa con una parodia della scena rock dell'epoca. ‘This is Spinal Tap’ è un successo di nicchia, si fa notare perché il regista ne è anche lo scatenato protagonista, un vero talento comico che resterà legato al personaggio per tutta la vita: proprio nei mesi scorsi lo aveva ripreso per una improbabile reunion del gruppo in quello che resterà il suo ultimo lavoro: ‘Spinal Tap II: la fine è solo l'inizio’. Nel 1986 invece, alla sua terza regia, Rob Reiner diventa una star: ottiene da Stephen King i diritti del racconto ‘The Body’ e lo trasforma in ‘Stand By Me’, una storia d'adolescenza sospesa tra incanto della giovinezza. King gli fa i complimenti e gli affida un nuovo progetto (‘Misery’), la platea dei Golden Globes lo candida per il miglior film e la migliore regia, il pubblico affolla i cinema.

La sceneggiatura perfetta

Ma Hollywood gli chiede invece una conferma come talento comico. È Nora Ephron ad affidargli la sceneggiatura perfetta: nel 1989, dopo il delicato ‘La storia fantastica’, esce ‘Harry, ti presento Sally…’ con Meg Ryan e Billy Crystal, prima prova della Castle Rock che intanto Reiner ha fondato con tre amici. Costato meno di 15 milioni di dollari, girato in una New York che diviene incantata complice dell'amicizia amorosa tra i due protagonisti, il film guadagna oltre 186 milioni di dollari nel primo anno, facendosi spazio tra blockbuster come Indiana Jones e Batman, sfiorando l'Oscar per la sceneggiatura (battuto solo da ‘L'attimo fuggente’) e portando a casa anche 5 nomination ai Golden Globes. Da qui in avanti Reiner ha sempre evitato di restare inchiodato a un solo modello narrativo. Così ha sperimentato l'horror (‘Misery’ con Cathy Bates e James Caan), il thriller giudiziario (‘Codice d'onore’ con Demi Moore, Tom Cruise e Jack Nicholson), la satira gentile (‘Il Presidente’ con Michael Douglas e Annette Benning), la commedia sentimentale (‘La storia di noi due’ con Michelle Pfeiffer e Bruce Willis) in oltre 20 film che confermano la sua versatilità, ma che sempre mostrano quella gentilezza del tocco che lo ha reso inconfondibile e amatissimo.

All'amica Nora Ephron una volta confessò che il trauma della separazione dalla prima moglie, Penny Marshall, lo aveva segnato per sempre, legando la sua carriera al tema del rapporto impossibile tra amicizia e amore. Al sentimento e alla famiglia del resto ha affidato una vita apparentemente senza scosse, con quattro figli (tutti poi diventati attori o sceneggiatori) e la seconda moglie, Michele Singer, madre di tre dei suoi figli. Dietro questa quiete apparente si nascondono invece momenti più drammatici come la lunga lotta contro la dipendenza dall'eroina del figlio Nick. Nulla però lasciava presagire una fine drammatica per quell'uomo tranquillo, stimato e alla soglia degli 80 anni.

Artigiano della perfezione

Tra i tanti successi della carriera, uno spicca più di ogni altro quando si parla di Rob Reiner: la sua meravigliosa sensibilità nel dirigere gli attori che gli valse la fiducia di tutti i più grandi divi di tre generazioni, da Meg Ryan a Michelle Pfeiffer, da Jack Nicholson a Woody Harrelson. Era come se ogni volta ne intuisse il talento nascosto, quella capacità maieutica che permetteva a ciascuno di svelare un lato inedito, dalla fragilità segreta dello showman Billy Crystal all'umanità gentile del ‘macho’ Bruce Willis. Nella terra del cinema che conosce solo divi, registi di successo e produttori senza scrupoli, Rob Reiner rimane un artigiano della perfezione, un gioielliere del talento, capace di sgrezzare le pietre preziose mostrandone la luce inattesa e smagliante. Basta ricordare la scena del finto orgasmo di Meg Ryan in ‘Harry, ti presento Sally...’ per capirlo. La scena fu improvvisata sul set assecondando la proposta dell'attrice. “È da pazzi – disse Nora Ephron – non cambiare un copione quando si ha a che fare con attori simili”. Ma non aggiunse che tanta spontaneità si doveva a un regista in grado di intuire fin dove poteva accompagnare la sua protagonista con la “gentilezza del tocco”.