‘Il mantello di Rut’ (Feltrinelli) è il romanzo di Paolo Rodari che si ispira a fatti realmente accaduti per riportare alla luce la Shoah romana
A Berlino, nei sotterranei del Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa, è possibile visitare la Sala dei nomi: una stanza vuota, sulle cui pareti vengono proiettati e letti in più lingue, ad alta voce, nomi e biografie di ciascuna delle vittime ebree accertate dello sterminio nazista; nonostante la lista sia parziale, la sua lettura completa richiede un tempo di 6 anni, 7 mesi e 27 giorni. È un tentativo di strappare all’anonimato quei sei milioni di morti, rimasti intrappolati in un numero che li comprende tutti, senza distinzione, che li schiaccia in una collettività indistinta, destinata inevitabilmente ad affossare l’individualità nell’anonimato.
Succede sempre così, nei genocidi. C’è chi rade al suolo e chi scava tra le macerie tentando di riconsegnare un corpo a quegli uomini, donne e bambini diventati improvvisamente bestie da macello, da smaltire un tanto al chilo senza troppe cerimonie. Nei decenni è stato fatto tanto per raccogliere e conservare le testimonianze dei sopravvissuti, la memoria dei morti. Ma il lavoro non è finito. Le tombe da riempire sono ancora molte.
Giornalista e scrittore nonché studioso di filosofia e teologia, Paolo Rodari è uno di quelli che ha messo le mani nella storia, dedicando due libri al tema della Shoah per riportare alla luce singole umanità, vicende poco conosciute o spesso simili a quelle vissute da molte altre vittime, eppure uniche nella loro individualità. ‘Il mantello di Rut’, appena edito da Feltrinelli, intreccia la vicenda di un giovane prete, figlio della miseria e in lotta costante con la sua vocazione, con quella di una vedova ebrea e della sua bambina di 5 anni, Aida. Siamo a Roma nel 1943, la città è occupata dai tedeschi e i rastrellamenti si fanno sempre più serrati. Remo, diventato parroco di una chiesa del quartiere Monti si trova a dover decidere da quale lato della storia stare. E sceglie di nascondere Aida e altre venti bambine ebree, mischiandole con le orfanelle del collegio adiacente. Strutturando il romanzo come una lunga lettera che Remo, ormai anziano, scrive alla bambina, Paolo Rodari si ispira a fatti realmente accaduti per riportare alla luce la Shoah romana e raccontare la storia di un amore impossibile e di un profondo atto di fede.
Questo è il suo secondo libro dedicato al tema della Shoah. Come in ‘La bambina che non sapeva odiare’ (Solferino 2022) anche qui ritroviamo il mondo dell’infanzia. Che cosa le interessa mettere in luce?
Sì, in effetti in entrambi i casi i protagonisti sono dei bambini. Nel primo ho prestato la penna a una donna sopravvissuta all’Olocausto. Si tratta quindi di un saggio elaborato a partire dal racconto della sua storia di deportata, entrata ad Auschwitz-Birkenau con la madre a soli tre anni. Ne ‘Il mantello di Rut’ mi sono concentrato soprattutto sul percorso di liberazione compiuto da Remo nel suo passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Il protagonista è un giovane costretto a dodici anni a entrare in seminario a causa delle ristrettezze familiari. La madre è vedova, ha altri tre figli e non riesce a mantenerli tutti. E così il più piccolo cresce lontano dagli affetti e nella severità di un’educazione cattolica vecchio stile. Sa di essere destinato a prendere i voti ma decide comunque di compiere una scelta, tentando di liberarsi dai condizionamenti esterni per ascoltare il cuore e assecondarlo. E poi c’è Aida, una bambina ebrea a cui insegnare quella stessa libertà, non condizionata dall’oppressione.
Gran parte dei suoi libri ruota attorno alla spiritualità. Che cosa cerca nella scrittura?
Cerco principalmente di essere fedele al desiderio più autentico del mio cuore. È lì che risiede la voce di Dio. Dentro il desiderio dell’uomo. La scrittura, per me, è l’espressione di questo desiderio. Quello che posso fare è restargli fedele raccontando storie. Due anni fa lasciai Repubblica dove ero inviato con incarico di vaticanista e approdai alla Rsi. L’arrivo in Svizzera, il cambiamento che questo arrivo ha comportato nella mia vita, mi ha fatto domandare che cosa volessi davvero essere. Oltre che giornalista, anche uno scrittore, mi sono risposto. Quest’ultimo romanzo nasce proprio da questa volontà.
La vicenda che racconta, seppur romanzata, è ispirata a fatti realmente accaduti. Come si è imbattuto in questo pezzo di storia?
Quando lavoravo come inviato per Repubblica mi imbattei in un articolo di giornale che parlava dell’esistenza di una stanza segreta, costruita sotto la cupola della chiesa della Madonna dei Monti, al centro di Roma. In quel luogo, tra settembre del 1943 e giugno del 1944, vennero nascoste e salvate venti bambine ebree. Durante i rastrellamenti le facevano passare attraverso un cortile interno e salire nella stanza segreta. I loro disegni, creati durante quelle ore di paura, sono ancora visibili. La cosa che mi ha colpito di più, però, è il fatto che quelle bambine abbiano trovato salvezza proprio nello stesso edificio in cui fino al 1800 venivano praticate le conversioni forzate dall’ebraismo al cattolicesimo. Da questo punto di partenza ho provato a costruire una storia. C’è una base di verità, il resto è inventato e rielaborato sulla base delle mie esperienze. La figura di Remo è ispirata a molti preti, conosciuti negli anni, in crisi vocazionale dopo aver fatto un’esperienza sacerdotale simile a quella sperimentata dal protagonista, nel romanzo: un Dio cristiano troppo spesso presentato dalla Chiesa in modo del tutto insoddisfacente, lacunoso, parziale.
Contrariamente a quanto ci si aspetterebbe da uno scrittore laureato in teologia e vicino alla Chiesa cattolica, il suo libro è molto critico verso l’atteggiamento che quest’ultima assunse durante il conflitto. Il protagonista, nel suo racconto, afferma: ‘Forse la Shoah non avrebbe mai avuto luogo senza questa avversione che prese corpo all’interno della comunità cristiana. E se a Roma tanti preti e tante suore durante l’occupazione hanno salvato e nascosto ebrei, è pur vero che in città si respirava un’autentica ostilità verso di loro: un’ostilità che le gerarchie ecclesiastiche non solo non hanno fermato, hanno addirittura alimentato. I ghetti, non mi stancherò mai di ripeterlo, li hanno creati i pontefici’.
Questa è una grande verità di cui si parla troppo poco. L’antigiudaismo, ovvero l’odio verso gli ebrei per motivi religiosi, è un odio cristiano accertato e perpetrato nel corso dei secoli. Gli ebrei furono da subito definiti deicidi. Nei loro confronti i cristiani hanno praticato le conversioni forzate, le prediche coatte. Fuori dall’antico ghetto di Roma ogni entrata era presidiata da una chiesa cattolica. Gli stessi ghetti sono stati creati dai Pontefici per separare gli ebrei dal resto della popolazione.
Quello di cui si parla poco è che la Shoah è avvenuta nel cuore dell’Europa cristiana. Con questo non sto dicendo che la colpa sia delle varie chiese cristiane ma sicuramente il disprezzo verso i giudei, considerati inferiori, ha contribuito a creare un terreno fertile su cui è cresciuto l’antisemitismo. Pio XII avrà probabilmente avuto le sue motivazioni diplomatiche e politiche per restare in silenzio, perché pare che temesse di inasprire ancora di più la furia tedesca. Ma la sua passività pesa moralmente come una colpa. La Chiesa cattolica è anche questo. Silenzio e connivenza da parte di alcuni, abnegazione e generosità da parte di altri. Dove risiede la sintesi? Ne esiste una? Probabilmente no. Bianco e nero convivono, come nella vita di ogni uomo. Il grigio, nel caso di quanto avvenuto a Roma in quei mesi, è il colore che meglio la rappresenta.
Quali peculiarità ha avuto la Shoah romana rispetto a quella di altre città italiane?
La presenza del Vaticano a Roma la caratterizza in modo unico. Da una parte la Chiesa ha salvato diversi ebrei dall’altra è rimasta in silenzio mentre il treno fermo a Roma Tiburtina, carico di mille ebrei, era pronto a partire per i campi. Pio XII rimase chiuso nelle sue stanze, senza dir nulla. L’unicum è questo: la presenza silenziosa e impotente del Vaticano.
Da ormai due anni il Giorno della Memoria ha assunto aspetti problematici a causa del conflitto israelo-palestinese. Che cosa può dirci rispetto a quello che sta accadendo in Medio Oriente?
Secondo me le due cose vanno separate. Un conto è la Shoah, un altro è ciò che sta facendo Israele in quanto entità politica. L’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre 2023 è stato deprecabile. Nello stesso tempo, però, concordo con il Vaticano quando afferma che “la risposta militare da parte di Israele, considerando l’alto numero di vittime civili, solleva molte domande riguardo la sua proporzionalità”. Tutto ciò ha però poco a che vedere con la Shoah che resta il grande male del Novecento e su cui occorre ancora oggi esercitare la memoria perché, come ha detto più volte Lilliana Segre, chi non fa memoria è costretto a ripetere perpetuamente gli errori del passato.
È vero che il senso di colpa europeo per quanto subito dagli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale ha avuto un peso nella storia di Israele come Stato. Ma è altrettanto vero che l’antisemitismo è ancora tristemente vivo. E che ancora oggi diversi ebrei sono oggetti di discriminazione, minacce e violenza. L’antisemitismo a mio avviso non può mai ammettere arretramenti.