Il ricordo di Nicoletta Ossanna Cavadini, direttrice del m.a.x. museo di Chiasso che nel 2017 ospitò ‘Immaginare’, la personale del grande fotografo
‘Oliviero Toscani: fotografia e provocazione al Museum für Gestaltung a Zurigo’, chiusasi lo scorso 5 gennaio, è stata l’ultima mostra dedicata al grande fotografo morto ieri a Cecina. Ha segnato il ritorno delle sue opere in Svizzera, la prima e l’unica dopo l’evento che il m.a.x. museo di Chiasso gli dedicò fra l’autunno del 2017 e l’inizio del 2018, la personale ‘Immaginare’, curata da Susanna Crisanti e Nicoletta Ossanna Cavadini. Oltre al materiale relativo all’esposizione, collocato all’interno, la mostra proseguiva all’esterno della struttura nel ‘bosco dei manifesti’ e in un percorso urbano che lungo Corso San Gottardo dava risalto al progetto ONU ‘Razza umana’. Vi fu anche una conferenza del fotografo nel locale Cinema Teatro. Nel ricordare Toscani, il museo riporta parole che vengono dal saggio di Ossanna Cavadini inserito nel catalogo di quella mostra: “Il continuo compiacimento della diversità, la sua costante capacità immaginifica nel riuscire a sviluppare la parte sovversiva, inaspettata e anche dettata dalla casualità – scrive la direttrice del m.a.x. museo – rimangono incastonati nella formazione di Toscani, ma ne fanno anche la costruzione della sua forza interiore in continuo divenire”.
Nicoletta Ossanna Cavadini: è in quel compiacimento della diversità di cui lei parla che si trova il tratto distintivo di Oliviero Toscani?
Sì, il grande, copioso lavoro all’interno della sua vita professionale è sempre stato caratterizzato di una ricerca che va in direzione opposta alla banalità, dunque verso la diversità, soprattutto a livello concettuale», ci risponde Ossanna Cavadini. «Sin dall’inizio, Toscani non amava essere etichettato ‘fotografo’, bensì amava pensare di essere un uomo che immagina, che pensa per immagini. L’atto fotografico in realtà è un atto intellettuale, culturale, non è solo un click: prima è necessario pensare, costruire un messaggio, dare un senso alla scelta dell’inquadratura. Su questo aspetto egli si è soffermato lungamente lungo tutta la sua carriera, e la dimostrazione sta nella diversità del suo modo di essere comunicatore, la diversità come valore contro l’omologazione, la profondità di ogni suo messaggio, che poteva essere provocatorio, trasgressivo, far discutere, scuoterci. Un’immagine non poteva non portare con sé un significato, e questo è tanto.
In un’epoca in cui ogni immagine non era immediatamente recuperabile, mai prima della campagna di Nolita era stata mostrata l'anoressia per quello che è. È questa la funzione sociale della fotografia?
Toscani amava il fatto che lo fotografia dovesse parlare dei temi della società, il valore della comunicazione dev’essere pensato, ma anche far pensare gli altri. Non basta passare davanti a un’immagine pensando che sia una bella fotografia, è ancor più bello che un’immagine mostri la sua nuda e cruda realtà. Alla modella anoressica aggiungerei la campagna sulla nascita, atto di gioia ma pure di dolore, nell’insieme della grande responsabilità di diventare genitori. E le immagini legate alla Chiesa, per le quali fu tacciato di essere profondamente anticlericale. In realtà Toscani metteva il luce ciò che la società presentava come problematico e non voleva che tutto questo fosse sotterrato, ma evidenziato da una campagna che per la prima volta era famosa di suo senza nemmeno il marchio del prodotto che la accompagnasse, dimostrando che attraverso il concetto si può andare oltre.
Ci racconta i giorni di Chiasso? Toscani era persona complessa da approcciare?
La mostra cadeva nel 2017, periodo che coincideva con il riavvicinamento a Luciano Benetton, con il tornare a ‘Fabrica’, con lo sprizzare nuova energia. Come sempre, con i grandi artisti bisogna mettersi in situazione di dialogo e capire quale sia il loro pensiero guida. Oliviero Toscani l’avevamo conosciuto a Chiasso con la mostra di Sergio Libis, alla quale aveva partecipato come atto di riconoscenza verso un grande maestro. Nel pensare alla propria di mostra, aveva già delineato principi guida molto particolari e ben saldi. Ricordo il primo incontro fattivo all’interno del museo: guardando gli spazi che ben conosceva, disse “voglio togliere tutto, il museo deve tornare a essere bianco, com’è stato pensato all’inizio?”. Confesso che mi spaventai: pensare di togliere tutto, i pannelli espositivi, le bacheche, qualsiasi elemento, anche di seduta all’interno di un museo può sembrare quasi un atto irresponsabile. Cercai di capire a cosa portasse tutto questo, ma la sua idea era chiara: era la prima mostra nella quale veniva proiettata l’intera sua attività, che aveva calcolato in oltre 20mila immagini. Per la prima volta voleva radunare, ricomporre, grazie anche al suo team – confrontato con quello del museo, e per il nostro fu un’occasione di crescita e confronto – tutte le immagini legate alle campagne che avevano scosso l’opinione pubblica, da proiettarsi con esattezza maniacale sulle pareti, con proiettori calibratissimi. Con gli ‘stamponi’ di Benetton, l’insieme tra cartaceo e digitale rendeva l’idea ben chiara di cosa fosse, nell’arte della fotografia, il processo mentale di pensare per immagini e significati.
In nome dell’aneddotica pura: un momento che porta con sé da ‘Immaginare’?
Il pensiero di non riuscire a trovare il millimetro che continuava a rimarcare, il personale tecnico che arrivò esausto alla realizzazione di questa visione di perfezione, di equilibrio delle luci, ma per quanto Toscani fosse rigoroso e a volte rigido nelle sue visioni, tanto era esplosivo a gratificante con tutti quando si riusciva a ottenere l’insieme.
A lei che ha potuto vederle tutte: l'opera che ritiene più innovativa, più potente?
Io credo che sia il pensiero in toto di Oliviero Toscani a essere stato fortemente innovativo. In tutte le sue campagne ha cercato di dire del nuovo, ponendosi come pioniere di un modo di pensare che riporti l’uomo al centro dell’umanità. Credo che quando a Chiasso fu messa in cornice quella nave coi migranti nell’Adriatico, riprovai quel sentimento di stupore della prima volta che la vidi in televisione. Credo che in ognuno di noi, anche il non appassionato al mondo della fotografia, colleghi al nome ‘Oliviero Toscani’ uno stato emotivo più che un’opera, un coinvolgimento della fase della propria vita. È questo che io credo lui lasci a tutti noi.