laR+ Distopie

L’algido Ernst Jünger e ‘Le api di vetro’

Quando ancora, nella pratica, non esisteva la parola ‘distopia’ e il romanzo era al massimo ‘allegorico’ (ma iniziava come un giallo...)

La prima edizione italiana
(Keystone)
19 settembre 2024
|

Trovando per caso ‘Le api di vetro’ (Gläserne Bienen, 1957), bellissimo titolo già dall’aria utopistica di utopia probabilmente negativa, indagando un poco scopri ‘Heliopolis’, scritto otto anni prima e che si può ricondurre allo stesso genere. Ma ‘Il lavoratore’, tra i saggi più noti di Jünger, è l’allegoria di una società futura fondata sul lavoro. Antichi dizionari parlano di romanzi “allegorici”, non esistendo nella pratica la parola “distopia”. Non sarà che una buona parte di Jünger è allegorica? Vale a dire a tendenza distopica o utopica?

Ernst Jünger è nato a cinque anni dall’inizio del Novecento e morto due anni prima che finisse. Ha sbagliato di poco l’esatta coincidenza col secolo, ma è durato di più. Ha partecipato alle due guerre mondiali, e prima ancora si era arruolato nella legione straniera, dalla quale esperienza sono nati i ‘Giochi africani’. Per trent’anni della sua vita è stato dentro e nei dintorni della guerra, trovandovi ispirazione per i libri di quel lungo periodo. Si usava la parola poligrafo per dire di chi è capace di provarsi in tutti i generi. Accade che un poligrafo scriva un giallo – nel suo caso, ‘Un incontro pericoloso’ –: quel giallo diventa un modello.

Tre Zapparoni

Anche ‘Le api di vetro’ inizia come un giallo: “Quando le cose ci andavano male, bisognava ricorrere a Twinnings”, e continua come un romanzo che si annuncia fuori dal comune per qualità letteraria: “... avrei dovuto già da un pezzo risolvermi ad andare da lui, ma la miseria ci toglie ogni forza di volontà. Si resta rincantucciati nei caffè, finché ci resta qualche spicciolo, poi ci si siede dove capita e gli occhi fanno buchi nell’aria”. Richard è un ex cavalleggero bisognoso di aiuto. Ricorre al compagno che si è ritagliato una vita losca, comoda e sicura di mediatore. E Twinnings lo manda da Zapparoni, magnate dell’industria del divertimento e di altro che si conosce così così. Zapparoni produce automi, strumenti che si applicano al campo dei giocattoli, delle armi, degli elettrodomestici. “Aveva cominciato con piccolissime tartarughe, che chiamava selettori e che erano preziose nei più sottili processi di selezione. Contavano, pesavano e assortivano pietre preziose e biglietti di banca, scartando i falsi”. Una larga fetta della sua produzione è dedicata alla cinematografia per bambini che attrae anche gli adulti. I film – nei quali degli automi recitano accanto agli umani – diventano ragione dei maggiori guadagni e insieme mezzo di propaganda.

Forse esistono tre Zapparoni, uno umano e gli altri robot? Una specie di Babbo Natale presiede ai giocattoli e alle sceneggiature, ma Richard sta per incontrare uno degli altri. Richard entra nelle spire invisibili di Zapparoni ancora prima di conoscerlo. Che cosa gli chiederà di fare? Un ruolo vago di sorvegliante, sembra. Poco o nulla si conosce dei sistemi di lavoro, tra il poco questo: “Non c’era orario di lavoro, vale a dire, piuttosto, che si lavorava quasi sempre”. Dopo un quarto d’ora di colloquio che lascia l’aspirante più sospettoso e impaurito, l’industriale gli chiede di aspettarlo là, indicando nel giardino un tetto di paglia che spunta tra gli alberi. “Alla prima svolta mi girai. Zapparoni stava ancora sul terrazzo e mi seguiva con lo sguardo. Mi fece un cenno e gridò: ‘Per favore, faccia attenzione alle api!’. E noi sentiamo che sotto quel tetto accadrà qualcosa – qualcosa si chiarirà o tutto si oscurerà ancora più sinistramente – e che Zapparoni lo farà aspettare ore. Richard avrà tutto l’agio di osservare e studiare i movimenti dei minuscoli robot volanti, ne vedrà altri che non sono api, scruterà le specialissime arnie – sede di raccolta e insieme di rifornimento –, vedrà altre arnie con api vere. Nel frattempo ricorderà episodi della sua vita, tutti esemplari di un mondo diviso in un prima e un dopo. Da ragazzo, in una lotta tra bande rivali, uno degli altri inizia a sanguinare. Richard afferra il braccio del capobanda, non “come uno che vuol trattenere un altro, ma come uno che vuol richiamare l’attenzione”. Avvisato, si fermerà. Invece lui si libera del braccio e ordina agli altri: “Picchiatelo!”. “Erano i miei migliori amici (...) Bastò una parola sua perché mi trattassero da nemico”.

Onnipresente

Zapparoni compare a p. 13 ma solo con il nome. Entrerà in scena oltre metà romanzo. Dopo l’incontro con Richard sparisce di nuovo lasciandolo alle sue osservazioni, congetture e angosce. Infine riappare nel XXIII e penultimo capitolo per chiudere il colloquio di lavoro. Atto che assume tutt’altra apparenza e sostanza, con quelle premesse. “Ormai non era più questione di accettare o rifiutare un lavoro. Oramai era in gioco la testa, e se uscivo sano e salvo da quel giardino, avrei potuto parlare di fortuna. Sul caso bisognava riflettere”.

L’andare e tornare di Zapparoni naturalmente è ingannevole: non c’è una sola pagina in cui non sia presente. Come non c’è un solo rigo di questa storia in cui non sia presente l’ambiguo, algido Ernst Jünger. “Nel regno della tecnica, la tecnica diventava magia e non avvinceva tanto per il suo valore economico, e nemmeno per il suo significato politico, quanto per la parte di divertimento che vi si scopriva. In questi casi ci si accorge che siamo presi in un gioco, anzi in una danza dello spirito, che nessun’arte del calcolo può afferrare. Possiamo ricorrere soltanto all’intuizione, a un appello del destino”.

Resta connesso con la tua comunità leggendo laRegione: ora siamo anche su Whatsapp! Clicca qui e ricorda di attivare le notifiche 🔔