laR+ L’intervista

Nella Parigi di Jacopo Veneziani

Storico dell’arte e divulgatore, è uno dei quattro di Sconfinare Festival. In ottobre, nel suo monologo, gli anni irripetibili dell'ex capitale dell’arte

Classe 1994, volto noto della tv italiana, l’11 ottobre a Bellinzona
11 luglio 2024
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Parigi città di intellettuali, scrittori, musicisti, in una parola sola ‘artisti’. Parigi ombelico del mondo dell’arte, luogo di collaborazione e rivalità, di incontri e passaggi di testimone. ‘Parigi’ luogo “dove bisognava essere per essere liberi” (Gertrude Stein), Parigi che “è sempre una buona idea” (Audrey Hepburn in ‘Sabrina’). Se la frase non se la fosse già presa Napoli, forse esisterebbe anche un ‘vedi Parigi e poi muori’. Parigi come ‘Parigi’, monologo teatrale di e con Jacopo Veneziani, giovane storico dell’arte e divulgatore che con il suo libro ‘La grande Parigi’ (Feltrinelli) sullo sfondo condurrà lo spettatore nella città delle avanguardie tra la Prima guerra mondiale e l’occupazione nazista, un momento irripetibile di esplosioni di colori, suoni e forme. Accadrà il prossimo 11 ottobre all’interno del quinto Sconfinare Festival, dal 10 al 13 ottobre a Bellinzona.

Classe 1994, otto anni a Parigi, un dottorato in storia dell’arte all’Université Paris 1 Panthéon-Sorbonne, Veneziani è volto noto della tv dapprima per la rubrica settimanale dedicata alla storia dell’arte all’interno del programma ‘Le parole della settimana’ (Rai3), ora ospite fisso de ‘In altre parole’ (La 7), condotto da Massimo Gramellini. Insegna ‘Comunicare l’arte’ all’università Iulm di Milano ed è presidente della Galleria Ricci Oddi, la Galleria d’arte moderna della città di Piacenza. In ‘Parigi’, Veneziani si chiede quale alchimia, a un certo punto della storia, abbia reso la città una calamita per intellettuali e artisti da ogni parte del mondo.

Giorni fa, quattromila persone in un centro commerciale hanno atteso l’influencer che cambia le cover dei telefonini. Jacopo Veneziani: il divulgatore di storia dell’arte può essere l’antidoto? Non so se, parlando di influencer che cambiano le cover dei telefonini, si capisce che il mio voleva essere un complimento…

Lo interpreto come tale, anche perché a mio parere, a proposito delle cover dei telefonini, esiste un certo bisogno di rallentare il passo di questi contenuti, oltre che frivoli, anche eccessivamente rapidi. Non posso fare troppo il giovane visto che a ottobre compio trent’anni, ma molti miei coetanei vivono questo desiderio di raccontare cose e si riversano sui social. Io credo sia necessario o consigliabile tornare a racconti più profondi e strutturati, che difficilmente riescono a trovare spazio in universi esclusivamente digitali. In questo senso, il teatro è ancora un’oasi di lentezza dentro la quale capire le cose con tranquillità e con il giusto tempo.

Comunque sia, quasi per assurdo, la tua narrazione nasce in rete. È lì che altri mondi mediatici sono venuti a prenderti, per portarti a sé…

Sì, il mio essere divulgatore nasce addirittura in quello che ancora si chiamava Twitter, un metodo ancor più frammentario di altri, col suo limite inizialmente fissato in 140 caratteri. Eppure mi piaceva l’idea del frammento, una modalità che, a mio parere, aiuta la divulgazione: il non svelare tutto di un argomento può suscitare curiosità e spingere chi ti ascolta a volerne sapere di più, approfondendo anche in modo autonomo. In parte questa dinamica mi piace ancora, non fosse che quando si bazzica troppo in questi universi frammentari cresce il desiderio di una maggiore esaustività. Devo dire però che all’interno di uno spettacolo teatrale divulgativo il principio è lo stesso, perché in un’ora e un quarto circa non è possibile raccontare sessant’anni del Novecento di una città come Parigi. Di certo, c’è più respiro.

Con Jacopo Veneziani ci troviamo di fronte a un divulgatore relativamente giovane, abituati come siamo ad apprendere concetti artistici da figure di una certa età. Può considerarsi, la tua, un’anomalia?

Forse un’anomalia italiana. Non so se sia anche svizzera l’abitudine a narratori esclusivamente ‘agée’, come dicono i francesi. Non credo si tratti di un’anomalia, quel che cerco di fare in ognuna delle mie avventure, televisive e non, anche in quanto consapevole di questo ‘sospetto’, è di non pormi come potrebbe fare un ottantenne, il saggio che rivela come sono andate le cose a persone che non ne sono consapevoli. Sento di presentarmi più come una sorta di entusiasta pronto a condividere col maggior numero di persone tutto ciò che scopre leggendo libri e facendo ricerche. È più la trasmissione di una passione che un racconto ‘spocchioso’. Per quanto si tratti di una sfumatura leggera, aiuta a non farsi percepire spocchiosi. Io non pretendo di insegnare nulla, voglio semplicemente condividere l’entusiasmo per una disciplina, un universo, un mondo.

Verso gli ottant’anni magari la narrazione di Jacopo Veneziani cambierà…

E chi lo sa, magari no. Il problema dell’arte è che per molto tempo è stata raccontata come un mondo al quale si accede solo se si è inviati, se in possesso di una serie di libretti delle istruzioni, o come se si fosse soci di un club esclusivo. E invece raccontare l’arte come una storia di uomini che, proprio come tutti noi, cercavano di esprimere concetti – loro attraverso colori e materiali vari – la rende un po’ più vicina al pubblico. Anche per questo il racconto deve essere il meno accademico e astruso possibile.

Del tuo libro ‘La grande Parigi’, Serena Dandini parla in modo entusiastico e richiama ‘Midnight in Paris’ di Woody Allen, dicendo che vorrebbe tanto essere “rapita dalla Peugeot magica e catapultata indietro nel tempo”. Nel tuo caso, tecnicamente, come arriva Parigi nella tua vita?

Arrivo a Parigi, banalmente, per via di un liceo piacentino che mi ha iniettato la cultura e la lingua francese in doti massicce, creando in me una certa dipendenza. Posso dire di avere subìto lo stesso mito di Parigi che subivano i giovani di fine Ottocento/inizio Novecento. Avendo studiato in un liceo europeo dove alla fine, oltre alla maturità italiana, ho preso il Bac francese (Baccalauréat, ndr) sono di fatto cresciuto leggendo la letteratura francese, i romanzi ambientati a Parigi, l’arte degli impressionisti e tanto altro. A un certo punto ho creduto che Parigi fosse il luogo migliore in cui andare per immergersi nell’arte; poi, così come gli artisti di cui racconto, anche io mi sono scontrato con la realtà, molto meno romantica di quanto immaginassi.

A Parigi ho vissuto otto anni e questo aiuta ad avere una geografia mentale e sentimentale della città. L’amore per Parigi arriva da una frustrazione: abitando lì, in ogni strada percorsa mi chiedevo se in quel palazzo o quell’altro avesse abitato un artista illustre; per mio interesse personale ho iniziato a raccogliere lettere, diari, scritti sull’arte, storie di quartieri, e in assenza di una Peugeot magica che mi ci portasse, ho provato a intravedere nella Parigi di oggi quella di ieri. A un certo punto, con in mano una grossa quantità di informazioni – a proposito di condivisone della passione – mi sono detto che avrei potuto farne qualcosa. Così è nato il libro per Feltrinelli.

‘La grande Parigi’ è un “racconto corale” – così dicono le note di copertina – che spiega ‘perché solo Parigi poteva diventare la capitale dell’arte’. Se non sveliamo troppo del finale, del libro e del monologo: perché solo Parigi?

Per il mito di sé che la città si era strategicamente costruita nel mondo. Oggi parleremmo di marketing culturale, di promozione turistica. Anche sulla carta, Parigi riesce a diventare una specie di calamita che attira a sé Picasso dalla Spagna, Modigliani dall’Italia, Brâncuși dalla Romania, Chagall dalla Russia, e di fatto crea un humus cosmopolita. Come tutte le grandi città, riesce ad accogliere tutti questi artisti senza privarli della loro cultura. Ognuno arriva in città con il proprio bagaglio culturale da mettere a disposizione degli altri, ed è come se in quei pochi chilometri quadrati fossero a disposizione tutte le culture del mondo, un esplosivo cocktail di forme, linguaggi, visioni del mondo e dell’arte dal quale attingere per creare il proprio linguaggio specifico. È da questa fusione di culture che nascono le principali avanguardie del Novecento. Parigi è una città delle città, è un orto nel quale gli chef andavano a prendere gli ingredienti di cui hanno bisogno, un orto che dava buoni frutti e garantiva piatti strepitosi.

Inclusi i piatti di Giacometti, per avvicinarci…

Anche Giacometti, sì, con il suo sguardo americano. Con la sua scultura forse più famosa, ‘L’uomo che cammina’, pareva aver intuito, anche per un certo suo naturale pessimismo di fondo, la fine degli anni gloriosi di Parigi. ‘L’uomo che cammina’ può essere interpretato come il demone dell’arte che aveva abitato a Parigi per oltre un secolo e che ora, un po’ affaticato, cercava nuovi lidi da colonizzare. Quella scultura era stata pensata per una piazza di Manhattan e non per Parigi, l’opera è una sorta d’incarnazione di quel passaggio di testimone che avverrà tra le due capitali dell’arte del Novecento, che potrebbero essere Parigi e New York.

Parigi è ancora la capitale dell’arte? O meglio, oggi esiste ancora una capitale dell’arte?

I social e i nuovi mezzi di comunicazione rendono meno forte quel bisogno di ritrovarsi tutti in un unico luogo per ispirarsi a vicenda. In fondo si riesce a ottenere questo scambio pur restando – ahimè, perché a mio parere è un limite – ciascuno nel proprio ‘paesino’. Se ci si chiede dove vivano oggi i grandi artisti contemporanei si scoprirà che hanno il proprio studio in luoghi dispersi nel mondo, così da lavorare in pace. Io credo che la globalizzazione abbia disgregato il concetto, assai novecentesco, di ‘place to be’, anche perché le grandi città come Vienna, Londra, che in passato sono state centri nevralgici dell’arte, campano su questo mito passato, sfociando a volte nel kitsch e nel trash. Ma già negli anni sessanta tanti artisti lasciarono Parigi, accusandola di avere perso la sua identità, di essersi fatta invadere dai turisti. Pertanto, oggi tutte le grandi capitali del mondo potrebbero essere capitali dell’arte, perché ormai non importa più dove sei, ma con chi ti connetti.

Chiedo perdono per la banalità, ma forse è solo disperazione: l’arte ci salverà? Ma soprattutto, quando?

L’arte non è che uno specchio per l’essere umano. Lo specchio ti aiuta a vestirti meglio? Dipende da come ci interagisci. L’arte è il carotaggio di un essere umano, a seconda di come si legge questa radiografia si può cercare di migliorare le cose. Insomma, l’arte è uno strumento: dipende da come viene utilizzato.

L’evento

Quattro serate fra natura e cultura

Che relazione esiste fra l’io e il mondo? Dove si trova il confine fra l’essere umano e l’ambiente che lo circonda? E in che modo si influenzano reciprocamente? Sono alcuni degli interrogativi posti al centro di Sconfinare Festival 2024, che la Piazza del Sole ospiterà nella consueta tensostruttura trasparente, per un programma destinato a tutte le fasce di pubblico. Ospiti d’onore, insieme a Veneziani, saranno Massimo Recalcati, Matteo Garrone e Domenico Starnone.

Protagoniste dei quattro eventi serali saranno dunque altrettante discipline: psicoanalisi, letteratura, arti visive e cinema. A inaugurare il Festival, giovedì 10 ottobre alle 19, sarà Recalcati, psicoanalista di fama internazionale, che parlerà al pubblico – in questi tempi di frontiere infiammate – della “tentazione del muro”, per una riflessione più generale sulla modalità con cui l’essere umano ha da sempre tracciato confini. Detto della Parigi di venerdì 11, sabato 12 ottobre Matteo Garrone, fra i registi più affermati del cinema europeo contemporaneo, parlerà del suo particolare universo creativo al confine tra la cronaca e la fiaba, elementi che convivono sorprendentemente in ‘Io capitano’, film candidato agli Oscar, Leone d’argento per la migliore regia a Venezia e 7 David di Donatello vinti.

A concludere la quinta edizione di Sconfinare, domenica 13 ottobre, una delle voci più rilevanti della narrativa italiana: Domenico Starnone. Già Premio Strega con il romanzo ‘Via Gemito’, lo scrittore dialogherà con Gianluigi Simonetti, critico letterario e accademico, sulle frontiere che dividono la realtà dall’invenzione. I biglietti d’ingresso per Sconfinare Festival 2024 sono acquistabili su www.sconfinarefestival.ch, la disponibilità di posti è limitata. Il programma completo verrà presentato a settembre, sul sito ufficiale e sui canali social.

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