Il ricordo

In memoria di Luca Serianni

Maestro amato e apprezzato, aveva l’indole e la curiosità dello storico, e un interesse vivo e aperto per la lingua come fatto sociale e letterario.

(Stefania Sepulcri - Sapienza, Università di Roma)

È morto giovedì 21 luglio all’età di 74 anni Luca Serianni. Non può non colpire chi conosceva l’eleganza affabilmente aristocratica dell’uomo e dello studioso la brutalità della morte: è stato travolto da un’auto lunedì mentre attraversava le strisce pedonali in prossimità di casa sua, a Ostia. Se n’è andato così, in un incidente insieme banale e violento nel traffico della capitale, uno studioso che ha incarnato in modo pressoché paradigmatico dentro e fuori le mura dell’accademia un’idea di linguistica intesa come studio appassionato e rigoroso dell’italiano, della sua grammatica, dei suoi usi, della sua storia, e un intellettuale che in misura crescente nel corso degli anni si era aperto a una dimensione pubblica, in difesa di un’idea partecipata e democratica della lingua e della sua trasmissione.

Non è facile tratteggiare in sintesi un ritratto di Serianni. In generale, si può dire che ci sono nell’accademia due tipi di studiosi: gli intensivi, che passano la vita a sviscerare pochi temi d’elezione (magari enormi: Leopardi, Dante), e gli estensivi, che invece subiscono il fascino di temi diversi e se ne lasciano attrarre. Serianni era certamente un estensivo: curioso ed eclettico nei limiti imposti da un’irrinunciabile vocazione al rigore e alla professionalità, e nei confini beninteso di un unico grande spazio di ricerca e lavoro, ma multiforme e accogliente, ovvero la lingua italiana.

Rigore e fedeltà

Serianni si era formato a Roma, la sua città, alla scuola di Arrigo Castellani, da poco chiamato da Friburgo a coprire la cattedra di Storia della lingua italiana alla Sapienza (ma allora non si chiamava ancora così): la stessa università in cui Serianni avrebbe poi insegnato per quasi quarant’anni, dal 1980 al 2017. Castellani era un linguista-filologo rigorosissimo: formidabile conoscitore delle varietà toscane medievali, fedele ai metodi tradizionali della grammatica storica. Come Serianni ha raccontato in un libro intervista scritto con Giuseppe Antonelli (Il sentimento della lingua, 2019), a conquistarlo era stata proprio l’asciuttezza di Castellani, la sua precisione da scienziato: il fatto che "non dicesse nulla più di quel che era necessario". Sono, va ricordato, gli anni in cui gli studi linguistici vivevano la loro stagione forse di massima effervescenza e popolarità, tra strutturalismo trionfante, grammatica generativa, sociolinguistica, ma anche linguistica letteraria, stilistica. Ebbene, poco o nulla di questa effervescenza (che fu certo anche dissipazione) si percepisce leggendo i primi lavori di Serianni: la tesi che discute nel 1970 sugli antichi testi pratesi, è un lavoro di edizione e puntigliosa descrizione fonologico-morfologica di testi pratici, lontani da ogni seduzione letteraria. Puri documenti linguistici nello stile del maestro. Traspariva già in questa scelta un abito mentale in seguito in parte temperato, ma in pratica mai più dismesso: un abito fatto di rigore e insieme di fedeltà a un metodo e alla concretezza di strumenti consolidati. E soprattutto (sulla scia di un altro grande maestro, Bruno Migliorini) un’idea empirica dello studio linguistico, inteso in primo luogo come raccolta e interpretazione di fatti: una fondamentale diffidenza nei confronti della teoria e dei suoi eccessi.

È questo atteggiamento che dà forma al lavoro forse più noto di Serianni, la Grammatica della lingua italiana uscita per le edizioni Utet nel 1988. Dopo anni in cui avevano imperversato discussioni accese su come si dovesse far piazza pulita della grammatica, rifarla da capo o almeno aggiornarla, adeguarla agli acquisti della linguistica più moderna e scientifica, Serianni uscì con un’opera di consultazione di grande mole, ma pensata per un pubblico non accademico, e soprattutto basata interamente o quasi sulle categorie classiche della grammatica, le vecchie ‘parti del discorso’ (il nome, l’aggettivo, il verbo, e così via). Quasi ad accentuare questa singolarità, nello stesso anno usciva il primo volume di una monumentale Grande grammatica di consultazione diretta da Lorenzo Renzi: un’opera radicalmente diversa, più per addetti ai lavori che per il pubblico, metodologicamente sintonizzata sulla linguistica più recente. Da una parte la grammatica dei linguisti, quindi, dall’altra la grammatica «tradizionale», come tra i primi volentieri si diceva non senza una punta di sufficienza. Un dualismo insensato, a guardarlo oggi, tanto è chiara la complementarità di due lavori grazie ai quali l’italiano diventava di colpo una delle lingue moderne più riccamente descritte al mondo, ma allora piuttosto diffuso. Da parte dei ‘linguisti’, naturalmente, non mancarono le critiche: e, certo, si può ammettere che la trattazione della sintassi non fosse del tutto soddisfacente (lo ha riconosciuto anche lui), ma la quantità di fatti linguistici che venivano catalogati e descritti era stupefacente, e la griglia di uno strumento descrittivo plasmato dai secoli mostrava intatta tutta la sua capacità ricettiva e razionalizzante, e insomma la sua vitalità. Gli esempi (letterari e no, ma perlopiù letterari) erano scelti con raffinata oculatezza; le indicazioni, che non si sottraevano alla prescrizione (cosa si può fare e cosa no), fissavano una norma magari un po’ alta, un po’ conservativa, ma gestita con mirabile equilibrio e attenzione alla varietà interna alla lingua. È sorprendente che un tale capolavoro della grammaticografia novecentesca sia stato scritto interamente nell’arco di un solo anno di concentratissimo lavoro.

Duttilità

Il successo di pubblico oltre che accademico di quell’opera, riproposta successivamente in varie forme nel corso degli anni, fece di Serianni un’autorità in materia di uso dell’italiano. Tanto per fare un esempio (minuscolo ma significativo), se oggi siamo liberi di scrivere sé con l’accento anche quando il pronome sia seguito da stesso, anziché se stesso senza accento come è stato a lungo (irrazionalmente) prescritto dalla grammatica e segnato in rosso dai docenti, lo dobbiamo in buona parte a una sua presa di posizione che ha fatto giurisprudenza, come dicono i giuristi. Le lingue sono organismi democratici, ma non insensibili alla forza dell’autorevolezza dei singoli, quando c’è.

Serianni del resto non aveva la vocazione del grammatico puro, né quella del linguista-filologo à la Castellani. Aveva piuttosto l’indole e la curiosità dello storico, insieme a un interesse vivo e aperto per la lingua come fatto sociale e letterario. A partire da quello che definiva il suo «primo lavoro di un certo peso lontano dai canoni» dedicato all’Ottocento, suo secolo d’elezione (Norma dei puristi e lingua d’uso nell’Ottocento, 1981), non si contano i contributi fondamentali che ha portato alla conoscenza di momenti e aspetti diversi della storia dell’italiano. Lo ha fatto sempre restando fedele alla linea di condotta a cui si è già accennato, ma aprendosi via via a una duttilità di approccio e di strumenti che è poi quella dello storico, che vede i problemi prima dei metodi. Si sono avuti così studi panoramici sul linguaggio poetico italiano (La lingua poetica italiana, 2001 e 2009), sul linguaggio medico (Un treno di sintomi. I medici e le parole: percorsi linguistici nel passato e nel presente, 2005: figlio di un medico, Serianni era stato abituato da giovane all’uso familiare dei tecnicismi), e una galassia di lavori più puntuali affidati a saggi e articoli su temi come il linguaggio giornalistico, l’immagine dell’italiano nei resoconti dei viaggiatori stranieri tra Sette e Ottocento, la riforma linguistica manzoniana, la vitalità del punto e virgola nella scrittura contemporanea, per fare solo pochi disparatissimi esempi. E poi quelli sulla lingua degli scrittori, da Dante (tra cui il recentissimo Parola di Dante, 2021) a Pasolini passando per il prediletto Carducci, per la lingua del melodramma di Verdi e Puccini, Della Casa: perché naturalmente la letteratura in Italia è stata a lungo la manifestazione principe dell’uso della lingua, ma anche perché nonostante l’ammirazione per Castellani e gli esordi sui testi pratici, la passione per la letteratura era in lui un primum. I tre volumi di Storia della lingua italiana curati con Pietro Trifone nel 1993 rappresentano ancora oggi una sintesi della disciplina di insuperata ricchezza e apertura metodologica.

La scuola

Se poi c’è un ambito che Serianni ha coltivato negli anni con un’attenzione crescente fatta di slancio civile non meno che di pietas, è quello dell’insegnamento e della scuola. Di nuovo, si trattava di un sacrosanto cavallo di battaglia della linguistica d’avanguardia degli anni Settanta (De Mauro, il Giscel, la pedagogia democratica). Serianni ne ha in fondo raccolto alcune istanze fondamentali, facendole però profondamente sue: dall’attenzione al gap linguistico-culturale degli allievi provenienti da contesti svantaggiati, alla centralità dell’insegnamento della lingua, anche per la sua dimensione di fondamentale strumento civile e democratico. Con l’inizio del nuovo millennio, la scuola era entrata in una situazione di turbolenza, poi di crisi; quel paradigma iniziava ad essere messo insistentemente sotto accusa: non fu dunque, la sua, una ripresa di quella stagione (per molti versi da lui piuttosto distante), quanto piuttosto il tentativo di affrontare un problema nuovo e attuale affidandosi a una intelligente revisione di strumenti tradizionali, forte di una profonda conoscenza dei meccanismi linguistici e di un’esperienza didattica di prima mano. Nascono riflessioni come L’ora di italiano (2010) e libri più operativi come Leggere, scrivere, argomentare (2013). Notevole, perché non è quello che ti aspetteresti da uno studioso di tale fama e di tanta dottrina, un libro scritto a quattro mani con Giuseppe Benedetti in cui si offre un’analisi straordinariamente partecipe di elaborati scolastici e delle relative correzioni degli insegnanti (Scritti sui banchi. L’italiano scolastico tra alunni e insegnanti, 2009). A questa altezza, siamo in anni recenti, Serianni è ormai un punto di riferimento anche in questo campo del dibattito pubblico; è chiamato come consulente del Ministero dell’istruzione, nel 2017 fa parte di un gruppo di lavoro per migliorare le competenze di lingua italiana in studenti e studentesse della scuola secondaria; partecipa alla revisione degli esami di maturità. Anche nella Svizzera italiana partecipa a varie iniziative di formazione per gli insegnanti delle Medie e Superiori, a incontri con gli studenti.

Del resto (e questo va sottolineato perché è un aspetto essenziale) Serianni era a sua volta, e forse in primo luogo, un maestro amato e apprezzato: un grande didatta, che senza timore di incorrere in un cliché abusato parlava con tranquilla convinzione della propria vocazione all’insegnamento. Uno che nel corso del suo lunghissimo magistero a Roma ha diretto (sembra incredibile) più di quattrocento tesi di laurea, e ha formato una scuola di cui andava giustamente orgoglioso e che giustamente lo ha ricambiato amandolo in modo incondizionato.

Accademico della Crusca e dei Lincei, vicepresidente della Dante Alighieri, Serianni è stato il volto ufficiale e autorevole dell’italiano. Ma di un’autorevolezza gentile, mai rivendicata o pretesa per sé in prima persona, che gli veniva piuttosto accordata spontaneamente e di buon grado tanto dai lettori della sua chiarissima prosa che dagli ascoltatori e interlocutori alle prese con l’eloquio forbito e accurato delle sue comunicazioni pubbliche. Un eloquio pieno di eleganza professorale, vagamente ottocentesco, e come di chi interponga tra sé e le cose un filtro fatto di cura e attenzione nella scelta delle parole, ma sempre corretto da un’ironia affabile: un garbo in cui non era difficile leggere tutta la disponibilità e l’apertura dell’uomo.

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