Culture

Dante e l’amore, tra Beatrice e Francesca

Donato Pirovano indaga come nell’opera di Dante l’amore rischi di trasformarsi da spinta salvifica a male perverso

Dante
(Keystone)
13 maggio 2022
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Gli spiriti amanti sono gli unici cui Dante assegni nella ‘Commedia’ uno spazio specifico in ciascuno dei tre regni dell’aldilà: il secondo cerchio dell’inferno per i "peccator carnali", la settima cornice purgatoriale per i lussuriosi espianti e il cielo di Venere per i beati amanti. A Donato Pirovano, in questo libro garbato e documentato, interessa soprattutto, come mostra il titolo, l’amore che si fa colpa, che da ‘agápe’ o ‘caritas’ si fa ‘ereos’; e indaga pertanto con particolare attenzione il celeberrimo canto quinto dell’Inferno, noto un po’ a tutti come quello di Paolo e Francesca.

Ora, a parte che il poeta non fa mai il nome di Paolo (lo dobbiamo ai primi commentatori), né ci dà tante altre indicazioni, come i "cognomi" dei protagonisti o il nome dell’assassino che li condusse a una medesima morte (li dobbiamo in larga parte a Boccaccio), è qui interessante notare come Pirovano, attraverso il sottotitolo del proprio saggio, alla coppia dei due amanti ne sostituisca un’altra: "Dante e Francesca". Perché, sostiene lo studioso, il destino di Paolo avrebbe potuto essere anche quello di Dante, se non ci fosse stato l’intervento salvifico di Beatrice, che si configura pertanto come un’anti-Francesca capace di riportare il poeta sulla linea teleologicamente orientata. Una via "smarrita", ma mai definitivamente perduta, che Pirovano segue tessendo una fittissima tramatura di richiami attraverso buona parte dell’opera dantesca. A cominciare dalla ‘Vita Nova’, il "libello" aperto dall’innamoramento per Beatrice, con la precisazione, atipica per la lirica coeva, che Amore era sempre accompagnato, come in "un ideale buon governo" (Gorni), dal fedele consiglio della Ragione.

Un amore messo tuttavia in pericolo da alcuni episodi cardine: dalla perdita del saluto da parte dell’amata (identificata, percorrendo la strada già segnata da Edoardo Sanguineti, come lo snodo, doloroso e necessario, affinché la poesia dantesca non si cristallizzi attorno alla riproposizione di moduli cortesi ormai logori, bensì costituisca l’inizio di un nuovo e più alto itinerario esistenziale); al "gabbo" di Beatrice; alla tentazione offerta dalla "donna pietosa e gentile" dopo la dipartita dell’amata. Momenti che costituiscono autentiche prove, che il poeta riesce a superare, ri-orientando il proprio amore verso il "ben fare".

Amor e ragione

È una dinamica che si ripresenta, ma con ben altra consapevolezza, all’interno di alcune ‘Rime’, in particolare nella "montanina" (forse contemporanea alla stesura dei primi canti dell’Inferno, sulla cui datazione è recentemente tornato Alberto Casadei) e nelle "petrose" (definizione che deriva dall’attrazione irrefrenabile che il poeta provò per una donna insensibile come pietra), la cui maggiore espressione è costituita dalla cavalcantiana ‘Donna me prega’ (e sui complessi rapporti tra Dante e il "primo amico" Guido, segnalo le recenti acquisizioni di Enrico Malato). Non a caso, le "petrose" appaiono indissolubilmente legate da una serie di tessere lessicali, di sintagmi e di rimanti sia all’episodio di Francesca, sia a quello purgatoriale in cui Beatrice rimprovererà al poeta di averla abbandonata per seguire un amore che annienta ogni virtù individuale, facendo regredire chi lo prova a uno stato più vicino all’animale che all’uomo; una passione spossante cui Dante dimostra di sapersi sottrarre in ‘Doglia mi reca ne lo core ardire’, la sua canzone più lunga, nella quale è riaffermato il vitanovistico principio per cui è sbagliato "crede[re] amor fuor d’orto di ragione".

Ed è (anche) per questo che l’unione eterna tra i due che "paion sì al vento esser leggieri" non può costituire uno sconto di pena (come pure è stato detto): nella "schiera ov’è Dido", Elena e Paride sono nominati singolarmente; ed Enea, in questa prospettiva, è allora visto come l’eroe capace di riconoscere l’errore insito in un amore che lo avrebbe distolto da un’impresa grande e giusta. Nonostante la disinvoltura con cui intesse la propria confessione di riferimenti letterari, la colpa è tutta di Francesca: se c’è stata condanna divina, giusta per definizione, significa che c’è stata responsabilità, quindi libertà, e quindi tempo per scegliere (Inglese); il tempo intercorso tra desiderio e compimento, forse mimato, aggiungo io, dalla pausa che separa le due parti del discorso della donna.

La passione folle

Tra le tante zone del canto tormentate dall’esegesi sulle quali Pirovano acutamente torna a soffermarsi, farò qui menzione solo del "mal perverso" per il quale, nelle parole di Francesca, Dante ha mostrato quella pietà che ha indotto le due anime a fermarsi. Non si tratterebbe tanto di un riferimento alla pena cui esse devono sottostare, peraltro comune a tutti i lussuriosi, bensì alla passione folle che le ha (av)vinte, deviata rispetto all’oggetto a cui avrebbe dovuto tendere (e "perverso" sarà significativamente Lucifero, massimo esempio di deviazione da Dio).

A Francesca, l’unica donna a parlare oltre a Beatrice in tutto l’Inferno, Dante affida dunque il compito di rendere icastica (e indimenticabile) la riflessione sul sottilissimo confine varcando il quale l’amore, da spinta virtuosa, si fa dannazione eterna.

Una riflessione, mi permetto di suggerire, che forse il poeta estende anche al contiguo canto sesto dell’Inferno, in cui sono puniti i golosi. Anzitutto per questioni di ordine strutturale, dal momento che quello di Francesca è il primo episodio a travalicare la misura del canto all’interno del poema. In questa prospettiva va notato come proprio la prima terzina del sesto canto dell’Inferno fornisca il cruciale dato per cui i due amanti erano cognati, rendendo pertanto, sulla scorta di una corposa serie di fonti medievali, inammissibile la loro colpa. Un peccato, quello di lussuria, che secondo la linea seguita da Pirovano non va sbrigativamente liquidato come un vizio privato, bensì come una perversione che abbruttisce i rapporti interpersonali e mina la convivenza civile: proprio l’elemento su cui si concentrerà la riflessione di Ciacco a proposito dei mali che affliggono Firenze. Andrà quindi definitivamente abbandonata, come hanno in varia forma ribadito Michele Rinaldi e Saverio Bellomo, anche l’idea per cui il peccato di gola si configurerebbe come un semplice disordine alimentare e non come una deviazione verso la mollezza e la rilassatezza, capaci di scatenare gli istinti più bassi della natura umana (da cui la necessità di tornare a una lettura univoca dell’intero canto, che eviti una focalizzazione esclusiva sulla sua parte più propriamente "politica"). E non credo sia del tutto irrilevante, infine, notare come il canto sesto proponga la prima occorrenza del sintagma "ben far[e]", così centrale nella riflessione di Dante (e di Pirovano), e il primo riferimento al giudizio universale all’interno del poema, che stabilisce un legame proprio con il testo delle "petrose" in cui il poeta narra di una passione sfrenata che non "abbandona" l’uomo neppure alla fine dei tempi.

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