L'intervista

Archivi digitali Rsi, avanguardia di nuovo servizio pubblico

Theo Mäusli, esperto degli archivi presso la Direzione generale SSR e docente presso l’USI e Fernuni Schweiz sulla storia dei media e l’archiviazione digitale

Theo Mäusli
15 febbraio 2021
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Le teche digitali della SSR. L’elettronica ha ingigantito la capacità di memoria, ma ha senso conservare tutto? L’archivista di oggi è un data manager, un operatore culturale e la RSI potrebbe diventare un "coraggioso precursore per i media di servizio pubblico"

Theo Mäusli: qual è la funzione degli archivi radiotelevisivi? In generale e in particolare per la Ssr e per la Rsi?

Già prima della digitalizzazione le radiotelevisioni di servizio pubblico erano coscienti del valore dei loro archivi per la futura memoria collettiva del territorio. In quest’ottica patrimoniale ben presto si rilevava importante la collaborazione con enti esterni, come la Fonoteca nazionale e poi l’associazione Memoriav. Era complicato utilizzare gli archivi per i programmi e quasi impensabile per gli esterni, perché la lettura dei vari formati audiovisivi necessitava l’aiuto costante di un tecnico.

Com’è cambiata tale funzione con l’avvento del digitale?

La digitalizzazione ha cambiato radicalmente il mondo degli archivi, ancor più per gli archivi radiotelevisivi. In poco tempo gli archivi sono stati inseriti pienamente nei processi di produzione radiotelevisiva e, dopo qualche esitazione, sono anche diventati un’offerta a sé delle Aziende radiotelevisive.

E nella scelta e conservazione dei documenti?

Di colpo gli archivi necessitavano grossi investimenti in sofisticati sistemi informatici e supporti di archiviazione digitali. Questi investimenti milionari si giustificavano con il maggior uso, nei programmi, dei contenuti d’archivio, con la razionalizzazione della logistica – non erano più necessari gli immensi spazi di magazzini climatizzati – e anche per l’obbligo morale di mantenere questo patrimonio culturale; obbligo morale che in Svizzera dal 2016 è anche diventato un obbligo legale. Infatti, superati i dubbi iniziali, la digitalizzazione si rivelava come metodo standard per la salvaguardia dei contenuti audiovisivi a lungo termine. Inizialmente si pensava dover selezionare ciò che viene archiviato, visto il costo elevato della memoria digitale. Oggi, con quasi vent’anni d’esperienza, sappiamo che la cosiddetta legge di Moore, secondo la quale l’efficienza dell’elettronica si raddoppia con un ritmo di ogni 18 mesi, si avvera anche nel mondo degli archivi. Il prezzo dell’archiviazione tecnica continua ad abbassarsi in modo esponenziale. Tecnicamente è possibile memorizzare l’intero patrimonio audiovisivo mondiale tramite un DNA artificiale, dunque materiale organico, in uno spazio non più grande di una tazza di tè. La EPFL (il Politecnico) di Losanna ha effettuato con successo dei test con materiali degli archivi del Montreux Jazz Festival.

E per la valorizzazione?

Un altro aspetto importante è la documentazione dei contenuti, che rende possibile un veloce accesso e dunque la valorizzazione. Negli inizi dell’era digitale si raccomandava di non “creare dei cimiteri digitali”, dunque non conservare contenuti che non potessero essere resi vivi tramite un’adeguata documentazione. Anche questo paradigma da qualche anno incomincia a vacillare. Sempre di più gli archivisti si servono delle nuove tecniche digitali per documentare in modo automatico: tramite un’analisi accurata dei flussi di produzione mediatica, raccogliendo tutte le informazioni utili e applicando delle sofisticate tecniche di intelligenza artificiale per generare le descrizioni direttamente dai contenuti stessi.

Si può dunque tenere tutto?

Tecnicamente siamo vicini a questo punto. E’ però in atto un interessante dibattito sul ruolo degli archivi. Selezionare, dunque decidere quali siano i contenuti da trasmettere al futuro, potrebbe essere virtù, non necessità. Archiviare tutto rischia di creare un’inflazione della memoria, una sua svalorizzazione, un “tutto è Storia”. Ma selezione significa assumersi delle responsabilità e gli archivisti, anche e soprattutto quelli dei servizi pubblici mediali, devono riflettere su questo ruolo.

Il lavoro dell’archivista sta quindi cambiando?

Paradossalmente, con la crescente importanza degli archivi, l’archivista classico sta sparendo, per lo meno nel mondo dei media. Diventa data manager e operatore culturale. Data manager, perché ha il compito di far sì che i contenuti e le informazioni di un’organizzazione siano raccolti e resi disponibili nel modo più efficace possibile. D’altra parte è il professionista che conosce questo patrimonio a fondo e sa favorirne e moderarne l’accesso corretto, rispettando per esempio anche i diritti e la protezione dei dati. Per l’uso interno, ma sempre di più anche per esterni.

L’evoluzione degli archivi ha influenzato la produzione dei programmi?

L’uso di contenuti d’archivi con gli anni è aumentato notevolmente perché i giornalisti potevano e possono, dal loro computer, accedervi direttamente, visionarli e integrarli nelle loro produzioni. Spesso gli archivi sono stati i primi che trattavano i contenuti in modo convergente, ossia: contenuti radiofonici, televisivi, materiale fotografico e anche informazioni scritte in un unico sistema e tramite un unico accesso. File è file. Ma non solo, sono stati gli archivi a costruire le prime piattaforme di contenuti, i primi a comporre dei dossier, a parlare di “files” e “folders”, di indicizzazione, motori di ricerca, interfacce. Sono insomma diventati gli specialisti dell’offerta on demand e hanno portato alla rottura con la logica lineare e di flusso della radio e della televisione.

Come sostenuto nel libro da lei curato Voce e specchio (Dadò, 2009), la Rsi è stata all’avanguardia “nel mantenere vivi prodotti audio e video altrimenti destinati a sparire negli archivi”?

La RSI con il suo team Internet nei primi anni 2000 può vantarsi di essere stata tra i primi a presentare delle offerte online, con tanto materiale d’archivio, per esempio - in collaborazione con il Cantone - le bellissime “Navigastorie”. E’ vero, tramite le offerte su piattaforme si è voluto sostenere la programmazione radiotelevisiva, offrire contenuti di servizio pubblico d’alto valore, per i quali l’offerta radio e soprattutto quella televisiva non poteva trovare spazio. Oggi Play Suisse - una piattaforma che offre contenuti, sottotitolati, da tutte le regioni svizzere - è considerata una delle offerte più importanti della SSR.

Se dovesse scrivere un ulteriore capitolo di Voce e specchio e riassumerci il decennio appena passato, cosa metterebbe in luce?

Decisamente una forte rivalutazione del ruolo di Servizio Pubblico, ma non tanto nel senso classico, come formulato quasi 100 anni fa dalla BBC (Information, Entertainment, Education) e tramite un flusso lineare. Sempre più servizio pubblico significa contribuire alla produzione, alla gestione e valorizzazione di contenuti che creino un legame con il territorio e la propria società. E, quale strumento e attore in questo processo, è primordiale il ruolo di archivi moderni, dinamici e creativi.

E infine, secondo lei negli anni a venire la Rsi e i suoi archivi cosa ci riserveranno?

Il processo è appena avviato. La RSI, essendo più piccola di altre aziende della SSR, avendo buone competenze nel ramo multimediale e degli archivi ed essendo nutrita da un territorio culturalmente molto ricco, potrebbe diventare una specie di coraggioso precursore in questa via futura dei media di servizio pubblico.

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