Culture

Microcosmi. Di ruderi, natura e ponti

Sguardi sulle cose che cambiano, nel territorio e nelle persone: dagli ‘scarti di territorio’ alla natura riletta dall’artista Al Fadhil

23 ottobre 2020
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Chi percorre l’A9, all’altezza di Turate si imbatte in un rudere affacciato da decenni sul cosmo vorticoso di macchine e moto. Cosa vediamo di quella struttura fatiscente, ridotta a un insieme di muri sopravvissuti alle intemperie, fantasma di sé, altro da chi l’ha pensata, costruita e da quanti ci hanno lavorato? Se non lasciamo la presa sulla vista dirompente, è l’oscuro intrigo che tinge l’alba di nero sovvertendo la linearità dei nostri gesti. È partecipare al suo fondamento, accettare la contraddizione senza risolverla, almeno per un po’. Qualcosa che fa la differenza, che si distingue, che si forma da una nascita voluta senza trovare un senso temporale. È superare l’iniziale esitazione – cosa sarà stato? – per dare spazio a una difficile reciprocità. L’occhio va, entra nei suoi lineamenti. Il rudere rispecchia la nostra fragilità, è archeologia industriale che fuori da progetti di risanamento vive nella solitudine. Ci soffermiamo su quello che era e non è più, trasfigurato in un luogo talmente lontano da non avere nome; cangiante, opposto alle imperanti costruzioni ‘alto standing’, simili tra loro nonostante le apparenze. Circondato dal moto perpetuo dell’autostrada e dei grandi centri commerciali, esprime apertura, meta di erbe e piante spontanee. Sembra perdente, una costruzione finita male, isola abbandonata da tutti, eppure la sospensione sul crinale dell’oblio gli consente di non disperdersi tornando a sé in un infinito ripetersi di battiti di ciglia, milioni di auto che passando lo hanno contemplato. Anni di avvistamento e di domande; siamo cresciuti, il rudere ci ha accompagnato restando qui al pari di un platano che nessuno, per fortuna, ha sradicato. Scaviamo nella mente, rivediamo quanto abbiamo voluto credere possibile. Lo sgretolarsi anno dopo anno, il perdere i colori naturali, le falle createsi in muri e pavimenti, l’essere alla fine un oggetto in perenne trasformazione, parla di noi. Composita Solvantur, scriveva Franco Fortini. Ciò che è scarto, nella sua e nostra agonia spirituale è simbolo di un’inquietudine che bussa alla coscienza, chiedendo: tu, chi sei? Se abbiamo lasciato che la decadenza facesse del rudere una struttura inquieta, qualcosa che senza ricorrere a cure si è deformato all’inverosimile, lui ha trovato risorse insperate. Nutrito dell’acqua piovana ha dato protezione ad animali e uomini in fuga, ha consentito riparo dai temporali quando il vento incrina gli alberi gettando le foglie al cielo. Dovremmo avere la forza di entrare, guardare la scala, sbattere la faccia con quella miseria che sola ridà fiducia al nostro cammino, perché non negata, rimossa. Tutto è benedetto quando ci pieghiamo sulla terra aspettando una scia di luce, improvvisa. 

Al Fadhil sul Monte Brè 

Cos’è natura quando parliamo di natura? E al sociale che significato diamo? Quali forme rappresentano oggi, l’oikos, nel confronto tra soggetto e mondo, fisicità del corpo, della terra e lo sguardo con cui li osserviamo? Venendo a scoprire l’esposizione dell’artista Al Fadhil, ‘Era Natura’, aperta fino al prossimo 31 ottobre presso il Museo Wilhelm Schmid nel cuore di Brè, mi sono felicemente ritrovato in un tempo circolare, di slittamento. Perché le opere dell’artista ricadono certo sul piano etico ma lo fanno attraverso ritmi naturali, vicino a quelle di Wilhelm Schmid. Le vediamo nei piani che danno l’idea di stazioni da percorrere. Un itinerario multiforme come è la natura, ecco la cifra che Al Fadhil sceglie per dare corpo alla sua rappresentazione; così, nel linguaggio dell’artista vive arcaicità, modernità, erranza. Ne ho parlato con lui partendo dalla sensazione avuta dopo la mostra, nei termini seguenti: per riprendere un discorso collettivo, etico, è necessario guardare il naturale fuori e dentro noi. Cosa ne pensi? “Uno dei fenomeni del nostro tempo altamente tecnologizzato è la perdita e lo smarrimento di sé. Sembra di stare dentro una scena di un film di Francois Truffaut dove i personaggi s’interrogano: chi siamo, cosa vogliamo, dove andiamo. Le immagini della natura violata potrebbero avere una funzione essenziale per attivare quella parte dimenticata nella memoria e per farci ricordare che è, ‘l’Era della Natura e non la Natura che era’ ”. Il tuo discorso non è ‘predicatorio’. È uno sguardo che invita a riflettere sugli attuali modelli di vita. “L’arte con i suoi linguaggi espressivi dispone di una potenza comunicativa formidabile; porta l’attenzione sui meccanismi dell’industria e del consumo. Del come e del perché. In base alla propria capacità culturale ognuno decide livello e qualità di emozioni acquisite da un sistema cinico. ‘Era Natura’, è una comunicazione d’arte dove il pubblico è invitato a fare un viaggio interiore”. Hai utilizzato più materiali che nell’insieme esprimono leggerezza. Integrano senza disperdere. “Ogni materiale ha in nuce la sua destinazione. Da sempre sono stato stregato dalla sperimentazione senza limiti… L’idea di utilizzo fa la differenza, basti pensare alla Fountain di Duchamp e al libero uso di Schmid della pittura e ceramica. Tuttavia, l’impiego di materiali diversi impone all’artista una notevole attenzione. Bisogna avere costanza e coraggio. E soprattutto fede”. Il dialogo con Wilhelm Schmid si dipana tra molte sfaccettature, una di queste è il rapporto con un suo autoritratto in vestaglia. Al Fadhil, in una tela ne coglie i frammenti, visti in altra prospettiva rendendo il tessuto qualcosa di molecolare ed espanso. L’opera ‘Perverting’, mostra la sezione di un albero secolare sacrificato alla cementificazione. Appesa a una parete del nucleo ecco ‘Sbarco su Lugano’, Photo 3000 per 1500 mm: di fronte all’indifferenza della città l’artista propone un’immagine che turba la coscienza per rovesciare lo status quo. Immagine che resta viva in noi per la sua forza.

Ponti

Tornando per un momento all’A9, una volta giunti a Milano ci imbattiamo nei suoi ponti. Quello della Ghisolfa rimanda a Testori, alla sua letteratura nata intorno a via Mac Mahon. Alla Gilda e al suo grande amore. Periferia di bar fumosi, di artigiani con la bottega sulla strada. Sotto i ponti qualche creazione spezza la monotonia del flusso cittadino, cosa che distrae e incuriosisce. Al cavalcavia Serra-Monte Ceneri incontriamo due figure rosso verdi quasi uscite da un cartone della Marvel.

Da lontano sembrano umani intenti a dare il benvenuto. Là sotto si muovono persone vere e immaginarie, basta avere la pazienza di seguirle. Milano non si mostra, va scoperta.


 

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