Culture

Beethoven e la pléiade: un ricordo di Pericle Patocchi

Il poeta ticinese, amico di Salvatore Quasimodo, insegnò francese al Liceo di Lugano negli anni Cinquanta. Tra i suoi studenti, Enrico Colombo

Patocchi e Quasimodo
13 giugno 2020
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Allievo del Liceo di Lugano nella prima metà degli anni Cinquanta serbo un ricordo sempre vivo e gradito dei compagni di scuola; ancora vivo, ma meno gradito, degli insegnanti, di regola onesti lavoratori, paghi di raccontarci cose lette su libri, adepti di mandarinismo culturale, ma tuttavia con alcune significative eccezioni.

Noi del corso scientifico avevamo in matematica Ambrogio Longhi, il “Gino”, un asceta nella vita privata, uno spadaccino nell’aprire un varco agli allievi tra i concetti della matematica. Svolgeva le sue lezione su due grandi lavagne scorrevoli senza toccare mai un gesso. Erano gli allievi, chiamati a turno, che vi scrivevano formule, tracciavano grafici, costruivano figure geometriche, in una certa misura determinavano il corso del programma. Longhi non adottò mai un testo, dettò sempre, con stile sobrio, i commenti alle formule e alle figura che ricopiavamo su un quaderno. Fra le sudate carte, che, per affetto o pigrizia, accumulo in casa i quaderni del “Gino” restano le cose più care.

I compagni del corso letterario in latino, greco e filosofia avevano Romano Amerio, un mostro di erudizione. Correva voce che usasse il latino, il greco e il volgare con ugual proprietà di linguaggio e alcuni suoi allievi, con spavalderia goliardica, citavano la massima che l’erudizione è quella forma di ignoranza che contraddistingue lo studioso. Amerio era soprattutto un filologo e aborriva i neologismi. Per uno sport molto praticato sulle nostre montagne, non usava il verbo sciare, bensì il più corretto scivolare. È certo che, con la sua sottile ironia, fu quanto meno un maestro di raffinatezze nella lingua italiana.

Il Liceo di Lugano otteneva in prestito dalla Magistrale di Locarno lo scrittore e critico d’arte Piero Bianconi. Veniva il giovedì mattina per quattro ore di storia dell’arte alle due terze e alle due quarte. Gli toccava l’arte dal Rinascimento in avanti, quella antica e medievale toccava a un altro docente, nelle prime e nelle seconde. Da Masaccio a Giorgione ai moderni la lettura formale delle opere d’arte alla maniera di Bianconi poteva essere mozzafiato. Da allora le mie visite a Roma sono condizionate dai percorsi tracciati dalle opere di Borromini e di Caravaggio.

Penso che la presenza di maggior spessore culturale nel Liceo che frequentai io fu quella del poeta Pericle Patocchi, che vi arrivò nel 1952 come insegnante di francese. Patocchi, nato nel 1911, fu un ticinese che s’abbeverò alla poesia francese, finì i suoi studi con una licenza in letteratura moderna all’Università di Friborgo e pubblicò quasi solo in lingua francese. Dal 1939 al 1951 insegnò francese alla Commercio di Bellinzona, dove nel 1945 arrivò pure Giorgio Orelli. C’è almeno una traccia della presenza dei due poeti nella vita culturale di Bellinzona: l’interesse per lo scultore Giovanni Genucchi, il cui atelier, grazie a loro, venne visitato anche da Eugenio Montale e Salvatore Quasimodo.

I primi due anni di insegnamento al Liceo coincisero per Pericle Patocchi con la pubblicazione a Parigi di due importanti opere poetiche: “L’ennui du bonheur” e “Gris beau gris” che mostrano “maestria nel piegare i metri più diversi alle esigenze di un’espressione ardua e sottilmente incantatrice” (Guido Calgari). Per noi allievi fu la rivelazione del maestro che non insegna, ma fa, che tratta i testi classici non come oggetti da venerare, ma come materiale da lavori in corso. Voleva che capissimo quanto “la loi du moindre effort” avesse condizionato lo sviluppo delle lingue moderne, lo intrigava che la poesia italiana avesse privilegiato l’endecasillabo, quella francese l’alessandrino, ma non voleva che di questo ci sentissimo in colpa.

Con la storia della letteratura eravamo arrivati a Ronsard e alla Pléiade, avevamo davanti il sonetto “À une jeune morte” e Patocchi ci disse che una volta, dovendo improvvisare un commento, pensò di paragonarlo a un‘opera di Beethoven:

“Comme on voit sur la branche au mois de mai la rose”
(le gradevoli sensazioni nella natura)

“mais, battue ou de pluie ou d’excessive ardeur”
(il temporale)

“languissante elle meurt, feuille à feuille déclose.”
(il temporale che s’allontana)

Facile, quasi banale, la citazione della Sinfonia pastorale, l’accostamento di Beethoven alla Pléiade, ma significativa la disinvoltura dell’insegnante nel proporre un testo importante del Cinquecento. Patocchi trattava gli allievi con la schiettezza di un compagno e tuttavia lasciava loro intendere che fuori dalla scuola attendeva ad altri studi, quasi come Machiavelli in esilio che di giorno s’ingaglioffava in bettola, ma alla sera nel suo studio ritrovava gli autori classici, i suoi veri amici.

Nel 1959 pubblicò a Parigi una nuova importante raccolta di versi, “Pure perte”; nel 1963 “Poemes de Salvatore Quasimodo”, una traduzione in francese di versi del poeta premio Nobel, che ricambiò. Nel 1967 apparve, in una elegante edizione dell’editore di Lugano Giulio Topi, l’ultima opera di Patocchi: “Chemin de croix”, una Via Crucis laica in XIV stanze, con traduzione italiana di Quasimodo a fronte, acqueforti originali di Mario Marioni, una prefazione di André Chamson dell’Académie Française.

Pericle Patocchi muore il 13 aprile 1968 e Salvatore Quasimodo lo segue il 14 giugno. Il 13 aprile 1969 l’editore Giulio Topi pubblica una postilla a “Chemin de croix”, con un testo di Adriano Soldini e la foto riprodotta in questa pagina.

Le sinfonie di Beethoven oggi si fischiettano, le poesie di Patocchi, con un po’ di fortuna, si trovano tra i libri di un antiquario.

La raccolta pubblicata nel 1959 termina con questi versi:

“Pure perte. Désir
libéré par le chant.
Le passé, l’avenir,
quels beaux vents dans le vent!
Ces paroles? C’est vous
qui les dites, amis.
J’étais moi, je suis vous
et ma fable est finie.”

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