Culture

Eraldo Affinati, scrittore e insegnante

Intervista all'autore italiano, ospite della seconda edizione di FestivalLibro in corso a Muralto

Eraldo Affinati (© Stefania Casellato)
8 febbraio 2020
|

«C’è una storia particolare che mi lega a Muralto e a Locarno». Inizia così la chiacchierata con Eraldo Affinati. È lo scrittore italiano – anzi «scrittore e insegnante perché tutti i miei libri parlano della scuola» – il primo ospite di FestivalLibro, manifestazione in corso a Muralto (il programma completo è sul sito www.festivallibro.ch).
Giovedì Affinati era a Locarno per incontrare gli studenti del liceo e per presentare il documentario di Giuseppe Carrieri ‘In viaggio con Mohamed’ «in cui racconto il viaggio in Marocco con un mio studente, nei luoghi da cui lui è partito».

E il legame con Locarno? «Il nonno di mia moglie è sepolto a Muralto: lui era un emigrante italiano, in Svizzera per cercare fortuna e suo figlio, cioè il padre di mia moglie, studiò alla Magistrale di Locarno per fare il maestro… e se ci pensi è simbolico, che io oggi sono qui perché insegno agli emigranti di oggi, insegno l’italiano ad adolescenti che si chiamano Alì, Mohamed, Omar, Faris». Il riferimento è alla comunità della Città dei ragazzi a Roma e alle scuole Penny Wirton che Affinati ha fondato con la moglie Anna Luce Lenzi, diffuse in tutta Italia e anche in Ticino.

Scrittore e insegnante. Ma come era Eraldo Affinati studente?
Sono stato un alunno negligente, un alunno inquieto, difficile. Non stavo bene a scuola e probabilmente è stato questo che negli anni mi ha spinto a diventare insegnante, quasi per recuperare i ragazzi inquieti e difficili come ero io.
Quando ho cominciato a fare le prime supplenze di italiano e storia, per la prima volta mi sono sentito bene a scuola: da studente sentivo con grande peso l’impegno scolastico, quella che io chiamo la “finzione pedagogica”, quel rapporto quasi teatrale, falso, tra docente e allievi.
Per questo ho fondato una scuola basata su un rapporto diverso tra studenti e professori, un rapporto di autenticità per puntare sulla qualità della relazione umana. È questo l’elemento fondamentale delle Penny Wirton.

Il nome della scuola da dove arriva?
Dal titolo di un romanzo di Silvio D’Arzo, uno scrittore italiano molto importante su cui io e mia moglie ci siamo laureati… e considera che oggi è una giornata particolare, perché Silvio D’Arzo è nato esattamente cento anni fa, il 6 febbraio 1920.

Prima si è accennato alla finzione pedagogica.
È questo meccanismo per cui l’insegnante, a volte, recita una parte. E se questa recitazione diventa, per così dire, troppo forte, si crea come uno schema a cui aderisce anche lo studente: c’è il professore, c’è il tempo della lezione, c’è il programma, c’è il voto… tutte cose che naturalmente sono importanti ma se diventano un ostacolo al rapporto reale, profondo, concreto, bisogna riuscire a scrollarsele un po’ di dosso.

Questo, immagino, soprattutto con studenti che parlano solo poche parole di italiano…
Sì e molti di questi studenti immigrati sono anche analfabeti nella lingua madre: non sono mai andati a scuola e se non crei da subito un rapporto umano li perdi. Ma questo discorso riguarda in fondo tutta la scuola: se riesci a uscire da questi schemi fissi, puoi soltanto guadagnarci.

Che tipo di lavoro si riesce a fare con questi studenti? Solo le basi della lingua italiana o qualcosa di più?
Dipende molto da chi hai di fronte. Nella grande maggioranza non puoi arrivare alla letteratura perché stiamo di fronte ai neoarrivati, persone che non parlano la lingua, spesso non sanno scrivere il proprio nome neanche nella propria lingua.
Però, se trovi il ragazzo già scolarizzato, che ha già un’impostazione – pensiamo a un rumeno, un ucraino – in quel caso sì, puoi arrivare alla letteratura. Ma diciamo che in generale la letteratura riguarda più le seconde generazioni, i figli degli immigrati che sono già proiettati verso quella che per loro è la nuova lingua.

E li coinvolge? Insomma, Dante, Manzoni, Verga dicono qualcosa ai ragazzi immigrati?
Dicono molto. Puoi leggere Leopardi a un ragazzo afghano e lui potenzialmente lo capisce meglio di tanti ragazzi italiani. Perché quel ragazzo afghano, quando legge il ‘Canto notturno di un pastore errante dell’Asia’, in qualche modo si identifica con quelle sensazioni che Leopardi ha così magnificamente rappresentato, perché ha vissuto quei momenti quando è venuto a piedi dall’Afghanistan in Italia.
Oppure, per fare un altro esempio, quando spiego l’esule Foscolo – è morto a Londra – in qualche modo quei ragazzi, che sono piccoli esuli, possono capire aspetti della vita di questo nostro grande poeta che invece restano nascosti a un altro che non ha vissuto questa esperienza di sradicamento.
Ma questo lo puoi fare con ragazzi che hanno già imparato l’italiano: noi abbiamo soprattutto neoarrivati e il discorso è l’opposto.

Cioè?
Sono loro che devono, con la nostra lingua, raccontare la loro storia. Questo è un aspetto linguistico molto interessante: quando devono raccontare la loro storia di profughi, ricorrono a quella che per loro è una nuova lingua. Scegliendo le parole della nostra lingua, capiscono quello che hanno vissuto: questa è la grande responsabilità per noi volontari che insegniamo l’italiano.

Date loro la possibilità di raccontare sé stessi. In un certo senso, di diventare sé stessi.
Sì, diventare sé stessi. Il percorso è questo: conoscere sé stessi, dare senso all’esperienza che hanno vissuto. E se non ci fosse stata la lingua, tutta la loro esperienza – drammatica, ma anche avventurosa – non avrebbe spazio.

Resta connesso con la tua comunità leggendo laRegione: ora siamo anche su Whatsapp! Clicca qui e ricorda di attivare le notifiche 🔔