Gli anni della Ddr, la fuga verso Berlino Ovest, la difficile integrazione in una società così diversa. E, il 9 novembre 1989, l'improvvisa caduta del muro
Il 9 novembre 1989 le autorità della Repubblica democratica tedesca annunciarono la riapertura delle frontiere con la Repubblica federale tedesca: è la fine della Cortina di ferro che, per 28 anni, ha diviso in due Berlino e il mondo. Trent’anni dopo la caduta del muro, ripercorriamo quei giorni con la testimonianza di Uta Ruscher.
Ottobre 1989 (© Keystone)
Avevo sette anni quando ebbi il mio primo contatto con il nemico di classe. Essendo pensionata, la zia Erna, la nostra vicina settantenne, poteva recarsi a Berlino Ovest e un giorno mi portò un sacchetto a forma di ranocchia di coloratissime gomme da masticare. Non dimenticherò mai l’odore che si sprigionò: dolce fruttato, un po’ vaniglia, un po’ lampone.
Un profumo mai sentito prima, tanto meno assaporato. La prima pallina era di un blu turchese. Me la passavo da un angolo all’altro della bocca con grande voluttà.
A poco a poco diventò una massa liscia e morbida. In bagno, davanti allo specchio dell’armadietto, mi esercitai a fare le bolle.
Le gomme socialiste si spezzavano subito quando le trattavo con la mia lingua, questa invece era estremamente elastica e la prima bolla mi riuscì già al terzo tentativo. Poi, all’improvviso, un botto. Brandelli di gomma sui capelli, ovunque. Tentai subito di ripulirmi, ma senza successo. La gomma da masticare capitalista si rivelò un disastro colloso, indissolubilmente appiccicato ai miei capelli. Non funzionò né con l’acqua, né con il sapone, fallì persino Spee, il prodotto di punta socialista sopravvissuto alla caduta del muro. Disperata afferrai le forbici e tagliai semplicemente le ciocche attaccaticce.
Riposi il sacchetto-ranocchia nella mia cartella, impaziente di andare a scuola. Le mie amiche della prima elementare dovevano poter anche loro godere di questo miracolo capitalista. Distribuii con generosità le palline colorate. Venni travolta da manifestazioni di simpatia. Invitata con largo anticipo di mesi a feste di compleanno o a scambi immediati. Tre tavolette di cioccolata dell’Est in cambio di una gomma da masticare dell’Ovest!
Mi sentii in dovere di rendere attente le mie amiche sulle fastidiose conseguenze delle pericolose bolle, ma non mi diedero retta. E così, proprio a causa delle bolle, le gomme da masticare del nemico di classe ora erano sotto gli occhi di tutti. La gioia e le risa suscitate da una particolarmente riuscita vennero bruscamente interrotte dalla signora Schachmann, la nostra docente di classe.
“Chi ha portato le gomme da masticare?”, chiese severamente.
Non tentai neppure di far finta di nulla e mi presentai. Mi strappò rabbiosamente di mano il sacchetto, mi afferrò per il braccio e mi portò nell’ufficio del direttore. Qui fui accolta da occhiate preoccupate e il direttore mi chiese conto del misfatto.
“Da chi hai ricevuto le gomme da masticare?”.
A bassa voce raccontai di zia Erna. Sul viso della maestra un guizzo di sollievo. Anche il direttore le fece un cenno conciliante. Perlomeno il mio disgustoso sacchetto non proveniva da un parente occidentale qualsiasi. Il direttore telefonò in ufficio a mia madre e le descrisse l’accaduto. Poi mi tese il telefono. Dovetti promettere di scusarmi immediatamente e di comportarmi in modo irreprensibile per il resto della giornata scolastica. Naturalmente feci del mio meglio, mi guadagnai persino un’ape che la signora Schachmann stampigliò con enfasi sul mio quaderno.
Sulla via del ritorno a casa scoprii per terra sull’orlo della strada un piccolo oggetto biancorosso. Sicuramente una delle mie amiche non aveva saputo resistere alla tentazione e aveva provato segretamente una gomma da masticare rossa, ma poi però, vuoi per paura o per ribrezzo socialista l’aveva subito sputata, un autentico insensato sperpero.
Prudentemente mi guardai intorno. Nessuno che mi potesse denunciare.
Afferrai velocemente la prelibatezza biancorossa e la misi in bocca. Scricchiolò un po’ sotto i denti, ma poi le sensazioni furono le stesse della prima gomma: fruttato dolce, un po’ vaniglia, un po’ lampone. Nascosi la gomma in una scatolina in fondo al mio armadio delle bambole. Perse abbastanza in fretta il suo sapore capitalista, ma la morbidezza e l’elasticità perdurarono.
Arrivò il momento di buttare scatolina e contenuto nei rifiuti. A zia Erna non raccontai niente di quanto successo. Ogni tanto mi regalava un sacchetto di caramelle. Ma dall’Ovest non mi portò mai più nulla.
Negli anni seguenti mi dimostrai una brava allieva. Come tutti gli altri diventai pioniera. A quattordici anni, riluttante, entrai nella Freie Deutsche Jugend, la Libera Gioventù Tedesca. Nel frattempo la nostra situazione familiare era cambiata. Mia madre, e io con lei, vivevamo insieme a un uomo. Non un uomo come gli altri. Roland veniva da Berlino Ovest. Di solito si andava da Est a Ovest, da noi a casa fu il contrario.
Che cosa era accaduto? Roland voleva lottare a fianco dei nostri operai e dei nostri contadini per la conquista del potere da parte del proletariato? Sognava un mondo senza sfruttamento e avidità di guadagno? No, il motivo che spinse Roland a trasferirsi dall’Occidente dorato in un’abitazione che dava su un buio cortile interno composto da due stanze senza bagno era di natura semplicissima. Lui non voleva vivere senza mia madre, e poiché mia madre mai si sarebbe trasferita a Berlino Ovest, a lui non restò altro che fare le valigie.
Le autorità della Ddr (Repubblica democratica tedesca) se ne rallegrarono, avrebbero volentieri esibito Roland come esempio vivente di una propaganda socialista riuscita ma Roland si rifiutò: era venuto per amore e non per convinzione politica. Poco dopo essersi sistemato in casa nostra salì sul tetto e installò un’antenna televisiva. Fino a quel momento avevamo guardato la televisione dell’Est, adesso potevamo guardare Ard e Zdf, i programmi dell’Ovest. Ma fu solo l’inizio. I parenti di Roland ci venivano a trovare regolarmente e ci rifornivano di caffè, abiti e scatolette di tonno. Al figliol prodigo non doveva mancare niente. Mia madre cucinava e arrostiva quello che offrivano i nostri spacci. Stupefatti guardavamo i parenti arrivare dall’Ovest: avvolti in una nube di Acqua di Colonia, attraversavano il sudicio cortile interno, salivano su fino al nostro appartamento con i sacchetti del Centro commerciale Karstadt e rovesciavano il contenuto sul tavolo da cucina. Ora indossavo jeans autentici, possedevo un cancellino e scrivevo con un penna stilografica Pelikan. Il massimo però era che non usavo più un sacchetto di stoffa, mi portavo in giro i miei arnesi in un fiammante sacchetto Karstadt.
Le due Berlino nel 1965 (© Keystone)
Roland non faceva mistero delle sue opinioni. E non gli ci volle molto tempo per cominciare a criticare le carenze, la cattiva amministrazione e la mancanza di libertà nella Ddr. Le sue opinioni ideologiche venivano quotidianamente avvalorate dalla televisione occidentale. E io fui sottoposta a una costante trasformazione mentale. Affascinata stavo ad ascoltare i racconti dei nostri nuovi parenti, ammiravo la loro abbronzatura di Maiorca, sgranavo gli occhi davanti ai cubi magici e ai Flummis, le luccicanti palline di gomma. Diventai provocatoria e indisciplinata, a scuola non accettavo più la solfa socialista. Le mie orecchie erano da tempo pronte al passaggio. Mia madre cercò di impedire il peggio.
“Perlomeno comportati come se tu fossi d’accordo su tutto. Si tratta del tuo futuro, della licenza di maturità!”.
Il direttore mi fece capire che la maturità era privilegio dei giovani di sicura fede socialista. Nel mio caso ciò significava dover diventare insegnante, l’educazione socialista delle nuove generazioni aveva la massima priorità.
Pur irritata mi dichiarai d’accordo. Ma pochi giorni dopo mi vendicai ed entrai a far parte della Comunità dei giovani della chiesa evangelica.
Sabine, la mia migliore amica, era battezzata e cresimata. Avendo dichiarato di professarsi cristiana, le fu negata la maturità. Da quel momento la accompagnai in chiesa. Ogni mercoledì ci incontravamo con il parroco, pregavamo un po’ e discutevamo molto. Imparai il Padre Nostro e qualche inno religioso. Apprezzavo il confronto aperto e le discussioni. Ci scambiavamo libri di filosofia, di letteratura e di arte provenienti dall’Ovest, non una parola su Marx, Engels o Lenin.
I nostri incontri furono sconvolti da un evento che avrebbe cambiato radicalmente il mio modo di pensare. Helmut, il fratello quindicenne di Sabine, aveva minacciato in un volo interno la hostess con una posata di alluminio. Voleva imporre un atterraggio a Berlino Ovest, ma venne immediatamente arrestato dalla Stasi (i servizi segreti della Ddr).
Non capivo più il mondo. Come era possibile dirottare un aereo con posate di alluminio? Sabine era fuori di sé. La Stasi aveva messo a soqquadro l’appartamento dei suoi genitori, li aveva sottoposti a un serrato interrogatorio a più riprese e non aveva permesso loro di vedere Helmut. Fummo presi da paura, una paura diffusa e spugnosa che ci rese muti, indifesi e arrabbiati. In seguito a scuola dichiarai che mai sarei diventata insegnante. Volevo studiare biologia.
“Scordatelo”, disse il direttore. “A meno che…”.
Voleva dire, a meno che tu non ti iscriverai al partito, ma ciò era fuori questione. Dunque niente carriera accademica! Sogno sfumato!
Ma adesso, cosa ne sarebbe stato di me? Mia madre era alle lacrime. Per fortuna, dopo il conseguimento della maturità, trovai lavoro alla Veb Deutsche Schallplatte, una casa discografica. Lavoravo in un ufficio di fronte al Reichstag, a una trentina di passi dall’Occidente. In mezzo la “striscia della morte”, soldati con cani pastore e kalashnikov passavano ogni giorno davanti alla mia finestra chiusa da inferriate, dietro di loro il muro. I berlinesi dell’Ovest ci gettavano uova marce e arance guaste, ci insultavano “maiali Stasi”. Le nostre attrezzature e i nostri nastri ci facevano sospettare l’esistenza di un centro di intercettazione della Stasi. I miei colleghi sospettavano un tunnel sotterraneo. Questo tunnel sarebbe servito da collegamento fra l’Est e l’Ovest. Tuttavia la porta era sorvegliata a vista. Ci passavo davanti ogni giorno. La chiamavamo la “porta della libertà”.
Ragazzi a Sebastianstrasse nel 1965 © Keystone
Dopo tre anni di prigione l’Occidente pagò per la liberazione di Helmut. Era stato in prigione con assassini e stupratori, ora viaggiava e scriveva cartoline da tutto il mondo. Alla sorella Sabine, la mia amica, mancava molto. Un giorno mi annunciò: “Helmut ha trovato qualcuno disposto a sposarmi. Poi inoltrerò una domanda per ottenere il ricongiungimento familiare”.
Una domanda normale di espatrio era molto rischiosa. Chi aveva un buon posto veniva licenziato e in seguito non otteneva altro che umili lavori. A scuola i bambini ricevevano brutte note. Tutto il clan familiare veniva preso di mira dalle autorità. Neanche a parlarne di promozioni, licenze di maturità, abitazioni, soggiorni di vacanza.
Anche Roland, il mio patrigno, fece domanda di espatrio dopo che mia madre lo ebbe messo alla porta. Gli confidai il mio piano per lasciare la Ddr (Repubblica Democratica Tedesca). Che cosa ci facevo ancora in questo Paese? Chiunque avesse avuto il coraggio di esternare la propria opinione veniva immediatamente messo a tacere. Chiunque avesse sposato un tedesco dell’Ovest doveva aspettare mesi, a volte anni, prima di potersi trasferire dal proprio compagno in Occidente.
Nella nostra Comunità dei giovani della chiesa evangelica ci fu un ulteriore arresto. Olaf aveva distribuito volantini con i principi degli Accordi di Helsinki, compreso il diritto fondamentale alla libertà. Erich Honecker stesso (il presidente della Ddr) li aveva firmati. Questo forse non contava?
No, non contava. Si fece di peggio, di tutto per mettere a tacere i presunti nemici dello stato. Helmut ci aveva raccontato di arbitrarietà, molestie e torture. Vivevo in uno stato che educava la propria popolazione all’ipocrisia e che la faceva spiare. Io stessa ero troppo codarda per reagire, avevo troppa paura delle rappresaglie e della prigione. C’era un solo modo per sfuggire a questa situazione: la fuga.
Nel frattempo la situazione a Berlino Est era cambiata. In occasioni speciali le autorità della Ddr rilasciavano visti, a condizione che i richiedenti dimostrassero di essere cittadini esemplari. Grazie al matrimonio di mia madre avevo preso il cognome di una famiglia di Berlino Ovest. Il padre di Roland avrebbe presto compiuto settant’anni. Lo feci passare per il mio vero nonno e inoltrai una domanda per ottenere di fargli visita. Anche se non mi aspettavo che mi lasciassero andare, c’era comunque una pur minima possibilità.
Nelle settimane successive mi comportai nel modo più discreto possibile. La Stasi mi sorvegliava. Una sera squillò il campanello del mio appartamento e sulla porta si presentò senza alcun preavviso un certo allievo ufficiale Meyer che voleva farsi un’idea di chi fossi. Era in abiti civili, molto rilassato, e mi fece una serie di domande.
“Lei va in chiesa?”.
Certo che ci andavo, lo doveva sapere, la Stasi sapeva tutto, anche le cose più banali. Tuttavia, provai a sminuire la mia frequentazione della chiesa.
“Dio è un’illusione, una fandonia. La Comunità dei giovani mi interessa pochissimo”.
“Ha intenzione di tornare?”.
“Certo! Non fosse che per mia madre. Per i miei amici!”.
Sarebbe stato meglio se avessi parlato in qualche modo di fedeltà socialista. Ma l’allievo ufficiale Meyer sembrava soddisfatto. Mi ha persino offerto una sigaretta. Esitando l’ho accettata, ho mandato sbuffi di fumo e dissimulato la mia tosse come meglio ho potuto.
“Se la lasciano andare, deve assolutamente fare una cosa: andare al Bahnhof Zoo per vedere i tossicodipendenti!”.
Annuii, seria e solerte, dentro di me pensavo che sarei scoppiata. Abbiamo fumato una seconda sigaretta. Poi finalmente l’allievo ufficiale Meyer prese congedo.
Nelle settimane successive ho cercato di non pensare alla mia domanda. Andavo a lavorare, guardavo attraverso le inferriate della finestra, seguivo l’andirivieni dei soldati e dei loro cani. Ho provato a non badare agli insulti degli occidentali. Ho ignorato la “porta della libertà”. A mia madre, che voleva sapere se intendevo rimanere a Berlino Ovest, rispondevo: “E anche se fosse, non te lo direi mai”.
Era una grigia e fredda giornata invernale quando varcai la porta dell’ufficio della stazione di polizia dove avevo inoltrato la mia richiesta. Sulla scrivania della poliziotta c’era un libretto blu, sottile. Era per me? Questo opuscolo significava che io…? Fui presa insieme da sensazioni di caldo e di gelo. La figura della poliziotta si offuscò davanti ai miei occhi, il mio udito percepiva tutto in modo sproporzionato: il mormorio delle voci davanti alla porta, il fruscio dei fogli sul tavolo.
“La sua richiesta di visita è stata accolta”.
Come se fosse cosa naturale, del tutto marginale, la poliziotta spinse verso di me il libretto blu e sottile. Era il mio passaporto! Munito di visto! Dovevo partire già dopodomani mattina.
Scesi in strada, con calma, camminando il più normalmente possibile. Non andare di fretta, non fare salti di gioia, non suscitare sospetti! Ho vagato senza meta per il mio quartiere. Da dove cominciare i preparativi? Fare la valigia? Scrivere lettere d’addio? Andare per l’ultima volta a far visita a mia madre?
Il giorno dopo andai da Roland e gli mostrai il passaporto. Era l’unica persona a cui avevo confidato le mie intenzioni. Gli diedi la mia chiave e i documenti più importanti: il mio diploma di maturità, il mio contratto di lavoro, il mio certificato di nascita; troppo pericoloso metterli in valigia.
Le ultime ore passarono in modo terribilmente lento. Dormire era fuori questione. Per l’ennesima volta ho riletto a una a una le lettere d’addio. Non avrei più rivisto mia madre e i miei amici, per decenni. Come avrei potuto spiegare che, nonostante tutto, ero disposta a pagare un prezzo così alto? In nome delle mie convinzioni, della mia dignità e della mia libertà!
Il Muro nel 1988 (© Keystone)
La mattina del 22 dicembre 1987 presi la valigia e mi incamminai verso il valico di frontiera, il cosiddetto Tränenpalast (Palazzo delle lacrime). Un luogo che ha visto tanti drammi, dove innumerevoli famiglie erano state separate con violenza.
Ci sono andata da sola, nessuno doveva accompagnarmi. Troppo grande era la mia paura di apparire sospetta e che tutto all’ultimo momento sfumasse. Il funzionario di frontiera controllò il mio passaporto e il mio visto e mi ingiunse di aprire la valigia. Frugò nella mia biancheria, ispezionò la borsa della toilette, cercò tasche nascoste o oggetti sospetti – senza risultato. E finalmente ebbi il permesso di andarmene. Così, semplicemente. Mi trovai nel corridoio di passaggio, largo e insignificante, in fondo una scala.
Il papà di Roland mi stava aspettando in cima alla scala. Aveva già comperato un biglietto per me, siamo saliti sulla S-Bahn in direzione del Bahnhof Zoo. Non riesco a ricordare dove siamo scesi. La sua auto stava parcheggiata da qualche parte. Ero come stordita, né qui né là. Quello che ricordo sono i colori e gli odori. All’Est era tutto grigio, desolato, vuoto, nessuna pubblicità, pochi fiori, in compenso tanti manifesti con slogan socialisti. Qui a Ovest tutto era colorato, in qualche modo più pulito e soprattutto molto più verde. Si percepivano profumi, di gomma da masticare, di dolciumi, di frutta. Bancarelle con montagne di frutta e verdura. Nessuno doveva fare la fila, c’era tutto in abbondanza. Non la finivo più di guardare. Abiti eleganti, autobus a due piani, automobili lustre, una spaventosa abbondanza di merci dietro vetrine sfarzosamente decorate.
Chiusi gli occhi, ascoltai le parole del padre di Roland senza capirle. Mi portò a casa sua. Uno dopo l’altro arrivarono anche gli altri parenti. Mi attorniarono, mi chiesero se l’Ovest mi piacesse. “Bello”, risposi, “proprio bello”. Avevano preparato un piano ben organizzato. Tutti volevano mostrarmi più cose possibili. L’Europa-Center, il Funkturm, il Kurfürstendamm. Partimmo subito. Il tempo stringeva, il mio visto durava solo quattro giorni. Il momento culminante del nostro viaggio doveva essere il Kaufhaus des Westens, il grande magazzino dell’Ovest.
Subito su al primo piano. Abbigliamento donna. Una marea di giacche, camicette, pantaloni e gonne, un intero oceano. La madre di Roland spostava energicamente le grucce, afferrava l’uno o l’altro capo di abbigliamento e lo misurava sul mio corpo. Ho cominciato a sudare. Intorno a me tantissime persone, luci accecanti, scintillii, bagliori e lampeggiamenti, canti natalizi, di tanto in tanto dall’altoparlante proveniva la voce suadente di un uomo.
Via al reparto giocattoli, dove la madre di Roland mi segnalava enfaticamente la varietà di bambole e orsacchiotti. Dalle mini bambole in porcellana all’alce a forma di armadio. Tutti gli occhi erano puntati su di me. Occhi ammiccanti con lunghe ciglia, occhi di vetro blu, verdi e gialli che roteavano, sempre più velocemente.
“Mi sento male”, dissi sottovoce.
“C’è una cosa che devo assolutamente mostrarti”, rispose la madre di Roland.
Raggiungemmo l’ultimo piano. Piano gourmet. Qui, in mezzo alle bancarelle di formaggi e salsicce, proprio accanto al banco del pesce, dove granchi accatastati uno sopra l’altro muovevano stancamente le loro chele, il mio corpo scioperò. Le mie gambe non reagirono più, mi afflosciai, stesa a terra non riuscivo più a sollevarmi. La madre di Roland si chinò su di me e sventolò una salvietta rinfrescante sotto il mio naso.
“Voglio andare a casa. Il Kurfürstendamm possiamo guardarlo più tardi. E comunque rimarrò a Ovest”.
L’effetto delle mie parole fu strabiliante. La madre di Roland smise di botto di sventolare la salvietta, smise di parlare, per un’eternità, come se il tempo all’improvviso si fosse fermato. Poi, mentre il venditore di pesce con un colpo netto mozzava la testa di una carpa che si dibatteva, rispose: “Affari tuoi. Ma da noi non potrai stare”.
Fu la mia amica Sabine a ospitarmi nel suo appartamento dopo la mia fuga, e fu lei ad aiutarmi a diventare un’autentica berlinese di Berlino Ovest. Durante il giorno andavo al centro di accoglienza, la sera cucinavamo e ci incontravamo con suo fratello Helmut. Nel centro di accoglienza sono stata visitata ed esaminata a fondo. Ero sana? Ero una spia?
All’inizio sono stata interrogata da un tedesco, poi da un francese, in seguito da un inglese e da un americano. Ho chiaramente espresso il mio disprezzo per la Ddr (Repubblica Democratica Tedesca), ora fumavo sigarette Camel o Marlboro.
Anche mia madre è stata interrogata. Dovette presentarsi tre volte di seguito alla Stasi.
“Puoi ritornare. Mi hanno promesso che non ti succederà niente”.
Non mi succederà niente? Doveva ben sapere cosa ciò significasse. O collaboravo con la Stasi o finivo in prigione. Credeva veramente che me la sarei cavata così facilmente? Non osai chiedere. Naturalmente il suo telefono era sotto controllo.
Nel centro di accoglienza come benvenuto mi diedero 200 marchi. Avevo portato con me una valigia con il necessario per quattro giorni, mi mancava tutto. I parenti di Roland mi procurarono quanto mi occorreva. Ciascuno di loro aveva da qualche parte un paio di scarpe usate, vestiti che nessuno voleva più indossare, o stoviglie in eccedenza. Ora ero in tutto e per tutto un membro della società di Berlino Ovest. E tuttavia mi mancava ancora qualcosa. Qualcosa che mi sfuggiva, ma che mi distingueva dai veri berlinesi dell’Ovest. Parlavo tedesco come loro, eppure non riuscivo a comunicare, a farmi capire. Certo, avevo ancora molto da imparare. Ad esempio, come aprire i contenitori di plastica della panna magra per il caffè. Al bar, dopo l’ennesimo tentativo andato a vuoto, la cameriera, innervosita, mi mostrò come piegare l’angolo e rimuovere la pellicola. Mi vergognavo, mi sentivo smascherata. Ma presi ben presto confidenza con tutti i trucchi di una moderna società occidentale, il mio straniamento non dipendeva certo da queste novità.
Ma a cos’era dovuto allora?
Cosa mi mancava?
Ho parlato con Sabine, che ha capito subito cosa intendevo e mi ha trascinato all’Europa-Center fermandosi davanti a una porta con la scritta “Dr. Löwe, psichiatra”.
“Non spaventarti!”, mi disse Sabine in modo eloquente, “il dottor Löwe è uno di noi. Tu soffri di Ostmacke (il disturbo psichico di cui soffriva chi era fuggito dalla Ddr), ma non sei certo l’unica”.
Lo studio del dottor Löwe era sovraffollato. Tutti cittadini dell’Est. Lì ho trovato Olaf, che avevo conosciuto nella Comunità dei giovani della chiesa evangelica. Ci ha fatto cenno di avvicinarsi, era molto dimagrito. I suoi occhi erano in continuo movimento, vagavano di qui e di là, come se stesse cercando qualcosa. Dopo due anni e mezzo di prigione, anche lui era stato riscattato dall’Occidente. Ora era seduto qui nella sala d’aspetto per farsi prescrivere un nuovo congedo per malattia.
“Non ce la faccio a lavorare, non so perché. Non riesco neppure a dormire. Passo la maggior parte del tempo a guardare la tv. La televisione tedesca dell’Est”, ammise a mezza voce.
Vidi le sue occhiaie, le unghie sporche e rosicchiate, la barba ispida. Un caso difficile di Ostmacke, ho pensato, per fortuna non ero così malconcia.
“Prima la Ddr, poi la prigione, ora Berlino Ovest – in fondo non so chi sono o che cosa sono. Alcuni occidentali mi rimproverano di aver tradito il socialismo, la mia famiglia, la mia patria”.
I suoi occhi mi fissarono come se nel mio viso potesse trovare una spiegazione per questo giudizio devastante.
Ma io non avevo una risposta, sentivo solo che aveva ragione. Proprio quello che ci eravamo lasciati alle spalle, ora ci separava dai nostri nuovi concittadini. La nostra educazione socialista, la nostra capacità di adattamento, la nostra impotenza, la nostra rabbia. Ma anche quello che formava ogni altro paese, le piccole cose della vita quotidiana, le abitudini alimentari, gli odori, i rituali, le canzoni. Ci mancava ciò che i tedeschi occidentali o gli abitanti della Ddr davano per scontato: l’identità. Devi solo alludere a qualcosa, e l’altro capisce al volo. Puoi comunicare senza dover spiegare nei dettagli. Una familiarità tra parole e gesti che percepisci solo quando manca, senza che tu possa capire cosa stia succedendo. Anche le case, i negozi, gli oggetti sono identità. L’aquilone della tua infanzia che non ha mai potuto volare, le pietre forate del Mar Baltico sulla tua scrivania, l’odore di carbone della tua stufa in maiolica.
Dopo tre ore di attesa finalmente entrai nella stanza del dottor Löwe. Quando mi chiese come stavo, sono scoppiata in lacrime. Ho pianto e pianto, mentre il dottor Löwe mi parlava con tono tranquillizzante.
Da quella volta non ho più rivisto Olaf. Mesi dopo Helmut mi raccontò che si era impiccato nel suo appartamento, lo stesso giorno in cui era stato rilasciato dal carcere un anno prima.
Esternamente ero del tutto integrata. Avevo ottenuto una borsa di studio, lavoravo alla Radio Libera Berlino e vivevo fra le mie quattro mura. Durante le vacanze semestrali sono volata ad Hannover, perché passare dalla Ddr avrebbe comportato il mio arresto. Da Hannover ho viaggiato in treno attraverso Germania, Francia, Spagna e Portogallo. Per la prima volta nella mia vita ho visto oleandri, palme e cactus nella natura, ho pianto alla vista delle spiagge dell’Algarve. Ho mangiato molluschi, bevuto acqua di mare salata e mi sono bruciata al sole.
Durante le vacanze di Natale mi sono recata a Budapest. Qui ho incontrato la mia amica Antje. Abbiamo passato insieme una festa tranquilla, acceso due o tre candele nella nostra camera d’albergo. Non dimenticherò mai il momento dei saluti alla stazione. Antje prese il treno per Praga, io quello per Vienna. I nostri appartamenti a Berlino erano distanti in linea d’aria poco più di 5 chilometri.
Le persone che si trasferivano all’Ovest andavano aumentando di giorno in giorno. C’era qualcosa di nuovo nell’aria. C’era stato il massacro nella Piazza della Pace Celeste (Tienanmen). C’erano l’Ungheria, Praga e Gorbaciov.
Fui convocata al Dipartimento degli interni del Senato di Berlino. Una donna mi mostrò una carta topografica e mi chiese dove fosse il tunnel tra Est e Ovest, la “porta della libertà”. Diedi volentieri l’informazione. Il giorno dopo il muro cadde.
Per poco non mancai la notte del 9 novembre 1989. Terminato di lavorare alla radio, mi ero fiondata sul letto stanca morta, quando venni svegliata dal suono insistente del campanello. Insonnolita raggiunsi la porta a tentoni.
“Chi è?”.
“Sono Antje. Come puoi dormire in una notte simile?”.
Chiesi ancora chi ci fosse alla porta. Era impossibile. Stavo sognando. Antje viveva all’Est.
“Deciditi ad aprire la porta! Esci fuori, dobbiamo andare”.
Stava lì in carne ed ossa. Con le guance in fiamme, sprizzando gioia da tutti i pori. Ci siamo abbracciate, abbiamo ballato e poi ci siamo precipitate in strada.
Berlino in stato di emergenza. Persone e auto ovunque, tappi di champagne che saltavano, clacson, grida di giubilo, risate, una città in estasi. Lacrime, molte lacrime. Lacrime di gioia, di sollievo, di un passato umiliante e ancora percepibile. Ora tutto sembrava spazzato via di colpo, come fosse stato tutto uno scherzo.
Anche le guardie di frontiera sorridevano. Si leggeva loro in viso la gioia non autorizzata, felici, di non aver sparato o di non dover sparare. Negozi e bar rimasero aperti tutta la notte. Gli autocarri si fermavano per le strade, carichi di Coca Cola, Berliner Kindl, dolciumi – doni di benvenuto per i berlinesi dell’Est. Scene di fraternizzazione a ogni angolo. Sul muro i primi tentativi di spaccare il cemento. Il rumore secco del picconatori, i Mauerspechte, ci avrebbe accompagnato nelle prossime settimane.
Nei giorni seguenti arrivarono tutti gli altri amici a casa mia, uno dopo l’altro. Li ho accolti con panini, caffè Jakobs Krönung e Philadelphia. Di recarmi a Berlino Est ancora non mi fidavo. Presi coraggio solo dopo qualche giorno. Fu facile. Mi chiesero solo la carta d’identità, nient’altro. Potevo andare, semplicemente.
Senza meta passeggiai per le strade, estranea, irritata, tutto uguale come sempre e opprimente, così uguale e reale che mi indusse a fuggirmene nuovamente. Sono tornata senza fiato, contenta di poter rifugiarmi nella mia stanzetta da studentessa.
La corsa verso Berlino Ovest il 10 novembre 1989 (© Keystone)
Quella confusione, quella estraneità mi avrebbe accompagnata negli anni successivi. Era stato difficile lasciare l’Est alle spalle, ora era di nuovo qui e si era catapultato nella mia vita senza essere stato richiesto. Dopo i primi mesi di entusiasmo mi sono trovata a discutere con i berlinesi dell’Est che, frustrati e spaventati, mi accusavano di accettare acriticamente il capitalismo. Eppure anch’io ero attanagliata dal dubbio, ero insicura, debole ma anche grata, curiosa, desiderosa non solo di affrontare la mia nuova vita in questo mondo occidentale così diverso, ma anche di goderla e plasmarla secondo i miei gusti.
Ero contenta dei miei vecchi e nuovi amici, di una Berlino che andava sempre più crescendo a dismisura straripando da ogni angolo, da ogni fessura. Quanto a mia madre, che in tribunale si è difesa con successo contro il suo licenziamento, ha imparato l’inglese e ha negoziato all’estero per conto della sua azienda. Sabine ha perseguito con tenacia il suo obiettivo di diventare inventore, ha sviluppato un fluido magnetico e ha fondato la propria azienda. Helmut dopo la caduta del muro è tornato a innamorarsi del suo primo amore di Berlino Est e da allora è felicemente sposato.
Tutti noi, in un modo o nell’altro, abbiamo trovato la nostra strada, a volte tormentati dai dubbi, a volte esitanti, ma anche determinati, attenti, qualche volta sospettosi, pronti a difenderci, a sottrarci, se necessario ad agire, a lottare contro il pericolo dell’oblio e dell’abbellimento insensato e ostalgico.
Uta Ruscher è nata a Berlino Est nel 1966. Dopo la maturità ha iniziato a studiare cristallografia, ma ha interrotto gli studi per lavorare presso una casa discografica. Nel 1987 è fuggita a Berlino Ovest dove ha studiato scienze musicali e scienze delle comunicazioni. In seguito ha lavorato per la ‘Berliner Morgenpost’, per diverse radio e Teldec Classics come autrice, critica musicale e tecnica del suono.
Si è trasferita poi in Ticino dove lavora presso la Rsi. Ora vive a Basilea. Ha pubblicato una biografia di Margherita Sarfatti e due romanzi: ‘Katzensommer’ e ‘Fiorenza dal Violin’
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